Ieri sera, dopo due anni di distanziamento forzato dalle sale cinematografiche, sono andata a vedere “Tre piani”, l’ultimo film di Nanni Moretti con l’eccellente Margherita Buy e diverse figure di contorno non troppo memorabili nell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo. Presenze come quella dello stesso Moretti, di Riccardo Scamarcio o di Alba Rohrwacher i cui contributi, nel corso del film, ricordavano moltissimo le caricature delle performance attoriali dell’amata Marchesini.

Ma andiamo per ordine: protagoniste del tredicesimo lungometraggio di Moretti sono tre famiglie che abitano in un edificio borghese, dove una finta quiete regna sovrana e le piante adornano passivamente l’ingresso della palazzina. Una forma di calma apparente, di caos calmo racconta, infatti, nell’affresco del regista romano, l’umanità che siamo: qualitativamente assente nella quantità di presenze a cui siamo sottoposti.

Le storie che si sviluppano attorno a ‘tre piani’, attorno a tre registri psicoanalitici da esplorare (per dirla alla Freud), sono quelle di tre famiglie: quella dell’ES (l’istinto), rappresentata da Scamarcio: un padre che proietta i suoi impulsi sessuali nella condanna del vicino a cui attribuisce la presunta violenza alla figlia. Quella dell’IO, rappresentata dalla Rohrwacher, una madre alle prese con un figlio appena nato, un marito assente e un principio di realtà troppo grande da vivere in solitudine, dove l’opposizione tra ES e realtà esterna sfocia in pazzia. E quella del Super Io, l’area del controllo, delle regole, del divieto, rappresentata dal Moretti, giudice giudicante in tribunale ma soprattutto in casa, con un figlio condannato a sbagliare da un giudizio che si scaglia contro di lui, a prescindere.

Il film è bello. Ritmato. La rappresentazione delle donne eccellente. Il cast migliorabile. Le scelte registiche spesso indecifrabili con tentativi di emulazione del simbolismo Sorrentiniano (nell’attacco di un centro di assistenza agli immigrati da parte di una folla di squadristi), della spettacolarità di Özpetek (nella scena del corteo di ballerini per strada, sul finale) e di Čechov. Ma su quest’ultima scelta non posso che tessere le lodi di Moretti: tutte le scene in cui il dialogo è assente (così come insegna il drammaturgo russo) e in cui vivono solo la forza degli sguardi, dei silenzi e delle ‘evoluzioni’ dei personaggi (mi riferisco ai primi piani dedicati a quella Buy che da sola vale tutti i “Tre Piani”) regalano un crescendo di emozioni che rendono questo film assolutamente da vedere nella sua necessità di perdonare e perdonarsi in un mondo in cui sembra che non possano esistere che vestiti e maschere scure, ma in cui si può sempre sperare in un finale a colori.