“Tre piani” di lettura per un caos troppo calmo

Ieri sera, dopo due anni di distanziamento forzato dalle sale cinematografiche, sono andata a vedere “Tre piani”, l’ultimo film di Nanni Moretti con l’eccellente Margherita Buy e diverse figure di contorno non troppo memorabili nell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo. Presenze come quella dello stesso Moretti, di Riccardo Scamarcio o di Alba Rohrwacher i cui contributi, nel corso del film, ricordavano moltissimo le caricature delle performance attoriali dell’amata Marchesini.

Ma andiamo per ordine: protagoniste del tredicesimo lungometraggio di Moretti sono tre famiglie che abitano in un edificio borghese, dove una finta quiete regna sovrana e le piante adornano passivamente l’ingresso della palazzina. Una forma di calma apparente, di caos calmo racconta, infatti, nell’affresco del regista romano, l’umanità che siamo: qualitativamente assente nella quantità di presenze a cui siamo sottoposti.

Le storie che si sviluppano attorno a ‘tre piani’, attorno a tre registri psicoanalitici da esplorare (per dirla alla Freud), sono quelle di tre famiglie: quella dell’ES (l’istinto), rappresentata da Scamarcio: un padre che proietta i suoi impulsi sessuali nella condanna del vicino a cui attribuisce la presunta violenza alla figlia. Quella dell’IO, rappresentata dalla Rohrwacher, una madre alle prese con un figlio appena nato, un marito assente e un principio di realtà troppo grande da vivere in solitudine, dove l’opposizione tra ES e realtà esterna sfocia in pazzia. E quella del Super Io, l’area del controllo, delle regole, del divieto, rappresentata dal Moretti, giudice giudicante in tribunale ma soprattutto in casa, con un figlio condannato a sbagliare da un giudizio che si scaglia contro di lui, a prescindere.

Il film è bello. Ritmato. La rappresentazione delle donne eccellente. Il cast migliorabile. Le scelte registiche spesso indecifrabili con tentativi di emulazione del simbolismo Sorrentiniano (nell’attacco di un centro di assistenza agli immigrati da parte di una folla di squadristi), della spettacolarità di Özpetek (nella scena del corteo di ballerini per strada, sul finale) e di Čechov. Ma su quest’ultima scelta non posso che tessere le lodi di Moretti: tutte le scene in cui il dialogo è assente (così come insegna il drammaturgo russo) e in cui vivono solo la forza degli sguardi, dei silenzi e delle ‘evoluzioni’ dei personaggi (mi riferisco ai primi piani dedicati a quella Buy che da sola vale tutti i “Tre Piani”) regalano un crescendo di emozioni che rendono questo film assolutamente da vedere nella sua necessità di perdonare e perdonarsi in un mondo in cui sembra che non possano esistere che vestiti e maschere scure, ma in cui si può sempre sperare in un finale a colori.


“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon

“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon è un gioiellino. Leggendolo, mi sono tornati in mente alcuni passaggi de “Il Piccolo Principe” così come molte scene di “Forrest Gump” legate alle molteplici problematiche gratuite che ci poniamo noi ‘adulti normalizzati’ e ancora mi chiedo come possa aver trovato questo piccolo capolavoro al Libraccio. Come abbia potuto, la gente, separarsene…

La voce narrante è quella del protagonista, il 15enne Christopher Boone, un ragazzo meraviglioso con una diagnosi di sindrome di Aspenger. Nei vari passaggi del ‘suo’ giallo, Christopher ci mostra il mondo da suo punto di vista, il suo mondo di regole perfette dove, se passano 5 macchine rosse di fila, allora sarà una giornata straordinaria, mentre se ne passano 5 gialle, la giornata sarà nera. Un mondo dove non si possono mangiare ingredienti che si toccano fra loro o che siano di colore giallo o marrone. Un mondo dove non sono previste intuizioni. Tutto ha una logica matematica che gli umani non capiscono con le loro regole prive di regole, dove tutto è una bugia gigantesca e non si può dire che si stia male quando si sta male, ma si deve rispondere “tutto bene”, e i vecchi non si possono chiamare “vecchi” e se una persona puzza non si può dire che puzzi. E si devono decifrare i sospiri perché possono significare mille cose, così come le frasi perché, anche se non si alza la voce, alcune volte possono dimostrare rabbia, altre perplessità, o. E si usano addirittura le “domande retoriche” e le “metafore” per complicare ancora di più tutto quello che, già di suo, è una grossa e complicatissima bugia.  

Christopher  ama la matematica, gli scacchi e Sherlock Holmes. Ama osservare le cose ovvie che nessuno si cura mai di osservare, cogliendone i particolari. E se qualcuno, dopo avergli mostrato un recinto di mucche gli chiedesse come sono fatte le mucche, lui risponderebbe “A quale mucca fai riferimento di preciso?” perché sarebbe in grado di descriverle, una per una, con minuzia di particolari su macchie e posizionamento delle stesse, quelle mucche lì.

Christopher  non ama il contatto fisico per cui, se vuole abbracciare una persona le sfiora le dita della mano aperte a ventaglio e per rilassarsi fa calcoli matematici, calcola numeri alla seconda o alla terza o gioca ai Soldati di Conway. Gli piacciono le regole e gli orari che gli impediscono di perdersi nel tempo e vorrebbe che esistesse un mondo in cui tutti possano vedere le cose dal suo punto di vista o sperare di diventare un astronauta e di andare nello spazio o in un sommergibile sferico in fondo al mare, per poterci vivere da solo senza tutto questo finto rumore, attorno.


Immobilismo da Covid-19: quando la responsabilità di Jonas ebbe la meglio sulla speranza utopica di Ernst Bloch

Negli sguardi diffidenti della gente, nel suo andamento veloce, schivante e schifante, nel silenzio e nell’apparente quiete, nei tram, negli autobus e nelle poche presenze che continuano a girare col loro passo serrato si rispecchia un periodo, quello in corso, quello trascorso, quello a venire, che sembra rispecchiare appieno la concezione filosofica e, oggi, attualissima, di Hans Jonas. Con il suo “Principio responsabilità”, il filosofo tedesco di origine ebraica, nel 1979 demoliva l’audace e utopistico “Principio speranza” di Ernest Bloch, affermando che “la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici”.

Si sviluppava, così il principio filosofico cardine di un’etica razionalista applicata in particolare ai temi dell’ecologia e della bioetica, un’etica che premiava l’immobilismo responsabile e la cultura del pensiero attivo e della conseguenza premonita alla corsa utopistica Blochiana.

Ne Il principio speranza, Bloch aveva mostrato, infatti, come la coscienza anticipante dell’uomo si manifesti nei sogni, nelle aspirazioni che caratterizzano la vita quotidiana, nel mondo fantastico delle favole, dei film, dei racconti, degli spettacoli teatrali. Come se l’uomo non fosse definibile ontologicamente nella sua staticità presente ma come non-essere-ancora. Da qui il suo motto “Ai piedi del faro non c’è luce”, un monito a reagire all’immobilismo, guardando sempre avanti, proponendosi un obiettivo da raggiungere in quanto “intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c’è ancora, cercando e costruendo nell’azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare – incipit vita nova”.

E così, in questo eterno dibattito bioetico tra il presente immobile e responsabile e il futuro utopico da costruire a tutti i costi, siamo stati costretti a seguire la lezione di Jonas.

E dalle canzoni sui balconi, dalle partite a tennis giocate tra i terrazzi, dai compleanni festeggiati alle finestre e dalle lenzuola bianche tappezzate di “Andrà tutto bene”, principi speranza focalizzati sull’utopia di quella luce distante dal faro, ancora visibile e raggiungibile, siamo stati costretti a passare inesorabilmente al secondo lockdown quando il silenzio è caduto sull’Italia e sull’anima degli italiani. Lo sforzo è stato sostituito dalla resa. I programmi dai rimandi, gli indicativi dai condizionali. E tutti si sono fermati, là dove si trovavano. Che dove non c’era nulla, nulla è rimasto. E dove c’era qualcosa, i licenziamenti hanno creato il nulla. E tutti hanno ritrovato le loro case, le camere da letto, i libri non finiti, i letti da rassettare, i mobili da restaurare, i passatempi da giocare. Tutti si sono presi il tempo. Hanno cominciato a sentirlo, scandito dai rintocchi degli orologi, di campanili finalmente protagonisti di un ‘fuori’ silente. E in questa quiete tanto ambita nelle giornate frenetiche del passato, il principio di Jonas ha finalmente trovato il suo presente. Ora che le uscite improvvisate, gli assembramenti nascosti ci rendono empiricamente consapevoli delle conseguenze a cui ognuno di noi potrebbe andare incontro, siamo tutti colpevoli se ci muoviamo. E colpevoli se programmiamo. Perché niente è programmabile. Niente si può muovere finché tutto questo rimanere sospesi non sarà finito e questa proiezione al futuro si continuerà a chiamare ansia.

Ma non possiamo chiudere un articolo del genere in questo modo, non vi pare?

Bloch sosteneva che l’utopia e la speranza danno all’uomo la possibilità di anticipare quel futuro dove l’uomo stesso realizza la sua intima essenza, ma il vero futuro deve essere nuovo, non può essere qualcosa di predeterminato nel passato e nel presente così da essere prevedibile in modo del tutto certo. E allora rassettiamo i letti, finiamo di leggere i nostri libri, restauriamo i mobili e poi riprendiamo a sperare. Che se anche la speranza è continuamente sottoposta al rischio, all’incertezza, all’ennesima pandemia, alle regioni rosse, alle cadute di governo, ai licenziamenti, ai dispiaceri, alle perdite, essa deve continuamente lottare per il futuro-nuovo, quello post-covid. E stare sul fronte. Prima che presto sia troppo tardi per ricordare come si fa. A sperare. 


La Signora Dalloway

“Come una nuvola attraversa il cielo, così il silenzio cade su Londra, e nell’anima.
Ogni sforzo cessa.
Il tempo sbatte stanco dall’albero maestro.
Dove ci troviamo, ci fermiamo.
Rigido, lo scheletro delle abitudini tiene su da solo la struttura umana”
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Ho sempre temuto la Woolf rimandando la sua lettura a tempi più maturi. Adesso ho letto “La signora Dalloway” e mi chiedo perché abbia sprecato tutti questi anni. Nonostante in questo libro non ci siano conflitti da superare o troppe regole di scrittura convenzionale rispettate, trovo che Virginia Woolf sia un genio. Le sue descrizioni sono pura poesia e leggerla é stato il più grande esercizio di scrittura che abbia mai fatto.


La novella degli scacchi

Dopo aver visto “La regina degli scacchi”, questo gioco è diventato la mia ossessione. Oltre al gioco in sé, quello che mi ha colpito, ciò per cui continuo ad allenarmi e a documentarmi, è l’abitudine alla pazienza qualcosa che, personalmente, non conoscevo e che, a livello terapeutico, si sta rivelando un toccasana per la sottoscritta. Ne parlavo l’altra sera con la mia amica Maria Elena: “Non si tratta semplicemente di un gioco”, le dicevo. “Ci sono dei pezzi e, ognuno di essi ha determinate regole o mosse da poter seguire. E lo scopo, sebbene sembri quello di uccidere il re (l’etimo del termine ‘scacco matto’, infatti, deriva dal persiano شاه مات‎, Shāh Māt che significa “il re è morto”) sta nell’attaccare continuando a difenderti. Che se ti difendi e basta perderai sicuramente. Ma se attacchi senza pensare alla difesa, il re è morto. È una sorta di triste metafora della vita in cui non andranno mai avanti quelli che giocano in difesa, ma quelli che attaccano continuamente senza fidarsi di chi hanno di fronte. E per riuscire a fare tutto ciò e a farlo bene, non si può certo azzardare, o prendere decisioni affrettate. Serve abituarsi alla pazienza“.

Dopo quella chiacchierata, Maria Elena mi ha regalato “La novella degli scacchi” di Stefan Zweig. Questo piccolo gioiellino narra la storia di Mirko Czentovič, campione di scacchi a livello mondiale con grandi problemi di acquisizione cognitiva che sfiorano l’analfabetismo rendendolo un misantropo grezzo, chiuso, altezzoso e avido che, su un piroscafo diretto da New York a Buenos Aires incrocerà il signor B, vero protagonista della vicenda. Nel corso del viaggio, i passeggeri, incuriositi dal carattere schivo e freddo di Czentovič, decidono di sfidarlo a scacchi per riuscire a carpirne i tratti di quella personalità tanto schiva. Il campione del mondo vince con facilità contro tutti, fino a quando, in una situazione di gioco disperata, non interviene il signor B, uomo intelligente e colto che, suggerendo alcune mosse ai giocatori, riesce ad impattare l’incontro

Una volta venuti a conoscenza di quell’uomo capace di anticipare le mosse del campione del mondo, gli ospiti del piroscafo cercano di convincerlo a partecipare a un incontro con Czentovič. E se dapprima la risposta è un rifiuto, dopo il signor B accetterà la sfida motivando la sua iniziale titubanza attraverso un racconto appassionato e angoscioso che va fatto risalire all’epoca nazista, a un periodo di detenzione in mano alla Gestapo in cui, attraverso il tentativo di una totale demolizione fisica e psicologica di B, costretto a vivere in una stanza vuota con “un tavolo e un letto e un catino e una tappezzeria” i nazisti cercavano di estorcergli informazioni sulle sue attività professionali. Una fase della sua vita durata troppi mesi in cui a salvarlo o a condannarlo per sempre, ci furono gli scacchi. Dopo aver rubato, infatti, dalla tasca dell’uniforme di un ufficiale tedesco un libro contenente 150 partite tra campioni, B imparerà tutte le strategie di questo gioco e come, da queste, riuscire a sfidare se stesso, a mente. Una sfida tra la propria parte bianca e quella nera che rasenta la follia, in attimi in cui alla pazienza di un sé, si contrappone l’impazienza dell’altro sé e dove l’intera realtà sembrerà essere rappresentata da una partita a scacchi da cui B riuscirà ad uscire ritrovandosi in una clinica dove, liberato dal nazismo con la promessa di emigrare entro due settimane, dovrà promettere al suo medico di non giocare più a scacchi. 

Dopo questo racconto, B accetterà di giocare contro Czentovič a patto che quella sia la sua prima e ultima partita. Ma a quell’incontro ne seguirà un altro e la frenesia patologica da cui era affetto B tornerà a ripresentarsi nella sua vita fino a quando questi non deciderà di arrendersi. Di lasciare la partita incompiuta, di rinunciare alla lotta contro l’avversario o, forse, contro se stesso. Dopo aver scritto questo romanzo Zweig si suicidò. Nel suo libro ritroviamo la prefigurazione di una sconfitta dell’intelligenza, della cultura e della sensibilità ad opera di un analfabeta ottuso. I richiami alla disfatta dell’Europa per mano di Hitler in questo parallelismo tra colti e rozzi, sembra evidente. Peccato che Zweig non ebbe la pazienza di restare in vita a vedere se Hitler l’abbia poi vinta davvero quella partita lì.

Voto: 3 su 5


Dolores Claiborne

Dolores Claiborne è un libro di Stephen King che racconta, a mo’ di monologo-confessione, la vita di Dolores, un’anziana donna del Maine che, sulla soglia dei 66 anni, si ritrova a fare i conti con la giustizia, accusata di aver ucciso Vera Donovan, la ricca invalida di cui era governante. In un susseguirsi di flashback, la protagonista ripercorrerà tutta la sua vita. Una vita segnata da violenze, umiliazioni e angherie inflittele dalla padrona a cui Dolores rimane fino alla fine e paradossalmente devota, e dal marito, un ubriacone, ignorante dalla fronte liscia e poco altro di buono da ricordare. Un uomo scomparso misteriosamente trent’anni prima e ritrovato cadavere con parecchi interrogativi ancora aperti.

Ho cominciato a leggere King due estati fa. Dopo Misery, lo scorso anno, mi sono avventurata nella lettura di IT, quello che considero un capolavoro di stesura e montaggio, un perfetto manuale per chi volesse imparare a scrivere un libro. Ho trovato Dolores, totalmente differente dai ’soliti’ libri attribuibili al Re. Nessun riferimento al paranormale, niente mostri o scene horror. Quella che ho divorato in poco più di due giorni, è un’ammissione di colpe lunga 267 pagine: la colpa di aver sposato l’uomo sbagliato, di averci fatto dei figli. Di non aver visto gli abusi nei confronti della figlia. Di averlo ucciso. Di non averlo detto. La colpa di aver deciso di accudire una ricca incarognita e di non averla ascoltata fino in fondo. O di averla ascoltata troppo bene, incarognendosi a sua volta. La colpa di aver trovato nel male, nella ribellione solitaria, l’unica forma di giustizia pensabile. 

A fine libro, credo che nessuno possa condannare Dolores. Non credo che lo si possa fare. In lei, nel suo amore divenuto violento, nella sua voglia di proteggere i figli, la padrona e tutto quanto le fosse caro, si rispecchia la voglia di proteggere se stessa dopo una vita straziata da ferite, da notti insonni e dalla solitudine, diretta conseguenza di tutto quanto è stato da lei, e da tutti, taciuto.

Voto: 3 su 5


La vasca del Führer

La vasca del Führer è il ritratto romanzato della vita di Elizabeth (Lee) Miller, scandito in 242 pagine di descrizioni fotografiche dalla penna di Serena Dandini. Un libro sull’emancipazione femminile che non segue mode o rivoluzioni femministe, che non sfida dogmi, patriarcati e misoginie ma che, esattamente come in un quadro realista, dipinge quello che Lee Miller è stata: una modella (prima per il padre, poi per i favori del pubblico grazie a un incontro fortuito con Condé Nast), una fotografa di moda e di guerra per Vogue ma, soprattutto, una donna completamente libera di percorrere la propria vita e poi di cambiarla e di stravolgerla a suo piacimento. 

Non avevo mai letto un libro della Dandini (che amo come conduttrice televisiva) né conoscevo la straordinaria storia della Miller ma, malgrado le premesse, ho fatto una fatica incredibile a portare a termine la lettura di questo libro (nonostante ne divori notte e giorno di più lunghi e ‘pesanti’). Partiamo dal titolo: credo che “La vasca dal Führer” sia lo specchietto per le allodole migliore che si potesse scegliere per attrarre, sia a livello visivo che immaginativo, l’attenzione dei lettori su quello che non è assolutamente, o non solo, un libro sulla seconda guerra mondiale e sulle atrocità dei lager da cui ripulirsi, provocatoriamente, in una vasca. Questa scena, quella della Miller nella vasca dell’appartamento nel quale Hitler incontrava Eva Brawn, rappresenta l’1% della storia. La storia di Lee, della sua vita mondana, dei suoi incontri con gli artisti, i fotografi, gli editori e i registi più famosi dell’epoca e delle sue passioni amorose e non, mai appaganti.

La vicenda viene raccontata come una biografia narrata in terza persona dove la terza persona, però, non sembra essere la Miller ma la Dandini. Dal ritrovamento delle foto della protagonista alla visione del suo unico cameo al cinema, i commenti dell’autrice del libro prendono il sopravvento sulla vicenda amorosa, professionale e artistica della Miller lasciando il lettore perplesso e, pressoché, infastidito da questi continui parallelismi tra la vita di Lee e quella di Serena. Al contempo, questo insinuarsi, da parte della Dandini, nei pensieri della Miller, questo suo raccontarne i dialoghi, le decisioni, le aspettative, le lettere mai scritte o le frasi non dette, falsa il genere rendendo il romanzo pura fantascienza. 

Tutto quello che rappresenta la Miller, dalle sue nudità immortalate da piccola dal padre alle sue pose per Vogue passando per i suoi scatti da fotografa, non hanno alcun tipo di immagine a supporto per cui, nel corso di tutto il libro, si è costretti ad accedere a Google sperando che il motore di ricerca rintracci, tra parole chiave improvvisate quando i titoli delle foto latitano, le immagini descritte.

Infine, la libertà sessuale della protagonista, sottolineata e rimarcata ad ogni capitolo, più che idealizzare la Miller a ruolo di antesignana di ciò che ogni essere umano debba essere e possa fare, sembra etichettarla come colei che, quando nessuno poteva, osava fare certe cose. Io credo che la vita di Lee Miller, dovrebbe essere studiata come esempio di caparbietà e determinazione. Come la rappresentazione reale di quel concetto filosofico per cui “Ai piedi del faro non c’è luce” e solo ponendosi sempre un obiettivo, davanti, si possa vedere la luce. Che in tutto questo cammino lungo la propria vita, si tradisca il marito, si faccia sesso ammanettati o si venga cornificati, non credo abbia troppa importanza. Né credo che queste curiosità intime arricchiscano il termine ‘libertà’ di chissà quali significati.

Voto: 2 su 5


Ritratto della giovane in fiamme

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Orfeo aveva occhi solo per Euridice che divenne sua sposa. Il destino, però, non aveva previsto per loro un amore duraturo, infatti, un giorno, la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò di sedurla. La fanciulla, per fuggire alle sue insistenze, si mise a correre ma, sfortunatamente, pestò un serpente nascosto nell’erba che la morsicò provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la sua vita senza la sua sposa, decise di scendere nell’Ade, per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse, con la sua musica, Ade e Persefone a far ricondurre Euridice nel mondo dei vivi a patto che, durante il viaggio verso la terra, la precedesse e non si voltasse a guardarla finché non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa, iniziò il suo cammino verso la luce ma, appena prima di arrivare in superficie, sospettando di condurre per mano un’ombra e non Euridice, dimenticando la promessa fatta, si voltò a guardarla ma, nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto, Euridice svanì e Orfeo assistette, impotente, alla sua morte per la seconda volta.

Ieri sera ho visto Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma con Noémie Merlant, Adèle Haenel, Luàna Bajrami, Valeria Golino, Cécile Morel.

Il film, ambientato nella Francia di fine ‘700, parla della pittrice Marianne incaricata di realizzare il ritratto di nozze di Héloise, giovane donna appena uscita dal convento, promessa in sposa a un nobile milanese per adempiere al compito al quale la sorella si è sottratta, suicidandosi. Per realizzare il ritratto, compito per niente facile considerando che Héloise ha bruciato il quadro precedente pur di non acconsentire alle nozze, sua madre spaccia la pittrice per una dama di compagnia imponendo a Marianne il compito di osservare attentamente i tratti della promessa sposa per poi riprodurli ogni sera, su tela. E così, in un film che si districa tra colpi di matita, tempere e spennellate, si dipana la realizzazione di un capolavoro artistico: quello che la regista riesce a fare, infatti, è dar vita, in una cornice gelida, dove il fuoco dei camini non riesce a scaldare le stanze marmoree nelle quali la vicenda prende vita, dove i deboli fuochi delle candele non riescono a dar luce ai volti, a un’ardente passione che si sviluppa tra sguardi, dettagli e inquadrature morbose di occhi che sembrano nutrirsi gli uni degli altri. Perché per riprodurre un volto, bisogna tener conto dell’attaccatura dei capelli, della forma dell’orecchio, delle movenze delle labbra. E in tutta quest’osservazione certosina dettata, in principio, da un compito da assolvere, in questa ardua ricerca del dettaglio da mettere a fuoco e salvare in memoria, Héloise, ignara, legge segnali d’amore, gli stessi che Marianne, suo malgrado, continua a lanciare.

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In un film dove le parole non servono, non sono necessarie perché a parlare sono le immagini, ad irrompere e dare significato alla trama, a quanto sta per accadere, ci pensa la musica. È così, Marianne, nelle prime battute, di fronte a una Héloise acerba rispetto alle sonorità di un concerto, le improvvisa il terzo movimento dell’Estate di Vivaldi che riflette, con efficacia, la carica esplosiva della stagione che le protagoniste stanno per vivere: il tormentato ronzio di mosche e zanzare prima che la tempesta si scateni e che il temporale esploda senza lasciare possibilità di mettersi al riparo.

Una volta ultimato il ritratto, infatti, Marianne rivelerà il suo ruolo a Héloise che, messa di fronte alla tela, stenterà a riconoscere in quella raffigurazione se stessa ma soprattutto Marianne. Da questo momento, il revisionismo aprioristico di Marianne, la sua tecnica, la sua conformità alle regole vengono spazzate via da un temporale di emozioni, da fuochi che ardono e che bruciano divampando e non lasciando possibilità alcuna di mettersi al riparo. Le due protagoniste vivono, nei cinque giorni successivi, mentre la madre di Héloise andrà a Milano, la libertà di essere se stesse, di amarsi e di emanciparsi dalla staticità che la società dell’epoca aveva imposto loro e il ritratto di questi sentimenti, delle vere Héloise e Marianne, prenderà finalmente forma. Ma, riprendendo il mito di Orfeo ed Euridice, Héloise mette in chiaro come andranno i fatti: quello che resterà di questo grande amore non sarà che uno sguardo all’indietro. E non perché lo ha voluto Orfeo, ma perché a volerlo sarà anche Euridice “perchè il quell’ultimo sguardo resti il ricordo del poeta”…

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A rientro da Milano, la madre di Héloise, soddisfatta del ritratto, congederà Marianne. Questa stringerà a sé, per l’ultima volta, la sua amata e, prima di uscire di casa, la guarderà un’ultima volta girandosi indietro e fissandone per sempre l’immagine.

Anni dopo, Marianne ritroverà il volto di Héloise in un quadro e poi, rivedrà la sua amata in carne e ossa a un concerto di Vivaldi. Ma quello che resterà, in questa sceneggiatura meravigliosa, vincitrice a Cannes, saranno ancora una volta i silenzi, le frasi non proferite, in una società dove le regole cingono le protagoniste lasciandole immobili nella staticità di una tela incorniciata.


“Joker”, “Tutto il mio folle amore” e la poesia dei giorni nostri.

Ho assistito a un poetry slam. In quest’epoca sprofondata nella superficialità, nell’accumulo sfrenato fatto di cose da dire, di cose da fare, di amici da ascoltare, di notizie da scrollare, di voci alte, di rumori e disturbi, avevo solo voglia di un po’ di autenticità o, semplicemente, di trovare un po’ di sana sensibilità condivisa nella quale riuscire, finalmente, a riconoscermi.

Sono entrata, quindi, in un locale, sui Navigli e, in mezzo a voci, frastuoni, grida e chiacchiericci distratti, c’erano loro: i ‘poeti’ della serata.

Si esibivano uno ad uno in preparatissimi cabaret dove facevi fatica a capire quando fosse cominciata l’esposizione poetica e quando (finalmente) fosse finita. Sul palco, ho visto giullari , menestrelli, animatori turistici, attori comici, cabarettisti, Joker (anzi no, salviamo Joker da questo banalissimo show) ma soprattutto, esibizionisti egocentrici, leggere o recitare a memoria versi che sembravano estrapolati da conversazioni su whatsapp tra innamorati dodicenni. Altri davano l’idea di aver composto delle canzoni rap, in rima, che interpretavano incitando la folla a interagire ad ogni strofa. Poi c’erano i geni mascherati di tristezza che, narrando di profughi morti in mare tra brindisi col pubblico e finti pianti singhiozzati, riuscivano a prendere più applausi di tutti.

E poi c’ero io con il mio amaro in mano, in gola, in testa: giudicante, incompresa, silenziosa e affranta da tutto quel rumore che faceva clamore, che prendeva applausi e trovava consensi e sapeva di niente. O peggio: sapeva di film dell’orrore.

Ultimamente, al cinema, ho visto due film che mi hanno scosso e percosso: “Joker” di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances Conroy e Brett Cullen e “Tutto il mio folle amore” di Gabriele Salvatores con Giulio Pranno, Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono, Daniel Vivian.

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Definiscono il primo un horror. Solo perché, circondato da troppo niente, inascoltato, incompreso, deriso, umiliato, un povero cristo, a un certo punto della sua vita, dopo aver accumulato rabbia, disperazione, tristezza, decide di ribellarsi al sistema nella maniera peggiore (o forse nell’unica maniera possibile per uno abituato a ingoiare rospi).

Assolutamente contraria ai metodi di ribellione utilizzati dal protagonista, per carità, ma come non capirlo? In questo “Black mirror” incombente e sempre meno virtuale, io vedo una moltitudine di potenziali Joker là fuori. Che ridono e ridono e ridono alzando il volume in quella risata. Perchè piangere, quello, bisogna farlo in silenzio lì dove nessuno può sentirli. Che il rischio di rimanere esclusi sarebbe troppo alto, troppo alto, altrimenti.

Ho visto anche “Tutto il mio folle amore”. E pensate un po’, in quell’horror di un “Joker” così come in questo film drammatico, io vi ho trovato molti più versi poetici ed emozioni che nella serata sui Navigli.

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Salvatores racconta il dramma dell’autismo o, forse, l’incapacità da parte di una madre, di un padre, di un figlio, di farsi accettare o, semplicemente, di trovare un modo, un gioco, una tastiera, una lingua, uno sguardo, per riuscire a comunicare.

Sia nell’uno che nell’altro film a cui ancora, dopo settimane, penso, la grandezza di attori, registi e sceneggiatori sta nello strappare alle parole, ai gesti, alle battute, il dialogo e farlo arrivare dritto agli spettatori attraverso metodi inconsueti: la risata di Joker, il vento sui capelli di Vincent o la sua frase di saluto al padre, sul finale del film, fatta di parole che non vogliono dire niente e vogliono dire tutto.

Tutte le mie lacrime stanno ancora lì, in quello slam poetry chiamato cinema, ultima speranza di questi anni bui.


A te che ancora, magari, mi leggi.

Quello che stiamo vivendo oggi, signora mia, è una bella trappola. Ci hanno ingabbiato in questo mondo virtuale che ci toglie il sonno, la lucidità, gli amici, che ci sottrae ai tête-à-tête, agli sguardi, all’ascolto, alla concentrazione o, semplicemente, alla vita. E così ci ritroviamo tutti, sottoscritta inclusa, in giornate di grande bellezza, fatte di schermi illuminati che filtrano i concerti, le portate dei ristoranti, i panorami mozzafiato. Ci ‘spariamo’ pose e selfie, imbalsamati nei nostri sorrisi sempre identici, per raccontare, amplificare e rendere assolutamente unica e invidiabile, la nostra vita perfetta.

Una bella trappola dalla quale, mi creda, non so se usciremo vivi. Ci sono persone, che ogni giorno, raccontano la vita degli altri, dei brand, dei personaggi, sul web e ne hanno addirittura fatto un lavoro. Ci sono ragazzi che si professano affetti da continui attacchi di improvvisa solitudine mentre, in mezzo agli amici, si destreggiano con il cellulare tra una conversazione su whatsapp e l’upload di una nuova story su Instagram e poi ci sono altre persone che influenzano. Che hanno potere, soldi e porte aperte, in virtù dei seguaci che hanno comprato o accumulato sui social.

Io, lo so che le sembra tutto surreale. Che la terminologia che utilizzo è grottesca e che, secondo lei, la mia non è che una visione pessimistica di dove stiamo andando. Ma quello che non sa lei, signora mia, è che io ci sto dentro fino al collo in questa gabbia. Io che amo profondamente la lettura, la concentrazione di fronte a un libro sfogliato, tesa a sottolineare quanto mi colpisca o dia emozioni ogni singola frase e che mi ritrovo, oggi, a scorrere quantità di informazioni inutili filtrate egregiamente da titoli postati in ottica SEO; io che odio i luoghi affollati o invasi dai rumori perché impediscono gli scambi di opinione e che mi ritrovo oggi a condividere pasti e uscite o passeggiate, ammirando retro di cellulari altrui; io che accumulo follower con la speranza che qualche porta si apra anche per me, ogni tanto. Io che ci lavoro dentro a questa gabbia. Io che ogni mattina mi ripeto “chissenefrega se hai studiato filosofia e se facevi la giornalista e se amavi Pessoa e Nietzsche e arrivare alla gente con l’autenticità e la qualità”, non vedi quanto sia interessante sicuro e ‘retribuito’, attirare l’attenzione degli utenti sui social con due righe accattivanti moltiplicate per tre post al giorno che fanno un ped mensile?

Signora mia, non faccia quella faccia lì. Che mi ha fatto usare faccia due volte e il mio direttore me lo avrebbe segnato con la matita blu (vabbè che qui siamo sul web dove si possono anche commettere i refusi (per lo meno se ti chiami IKEA).

Ci stanno fregando tutti e quando ce ne renderemo conto, signora mia, sarà troppo tardi. Adesso le racconto una bella storia triste, giusto per farle un esempio. Quando facevo la giornalista ebbi il mio Pigmalione. Un uomo che fu per me una guida, un esempio, il più grande capo, il giornalista più in gamba, versatile e competente con cui avessi mai lavorato. Lui non parlava dietro ad un telefono, andava in onda in tv. E incantava le persone. Non amplificava il suo ego e le sue possibilità di carriera accumulando follower. Scriveva pezzi. E ci metteva l’anima. Non lavorava sul suo brand, cercava di tirare fuori il meglio dagli altri, dai suoi dipendenti o dai personaggi che andava a intervistare. Era un buono lui. Talmente buono, altruista e attento al dettaglio, che non si rese conto che la quantità stava prendendo il sopravvento su tutta la qualità che lui professava. E che lo stavano facendo fuori. Il più grande giornalista che abbia mai conosciuto, signora mia, oggi fa il portiere di notte. E me lo immagino lì, a leggere i libri di carta sottolineando le frasi che più lo colpiscono, a interagire con la gente a suo modo, intervistando gli ospiti dell’albergo per costruirci le sue belle storie.

Ecco dove stiamo andando, signora. Quello che mi aspetto, è un mondo reale popolato da zombie. Dove i più frettolosi, superficiali e, me lo lasci dire, maleducati, faranno strada. E dove non ci resterà che sperare in un albergo dove andare d’estate per trovare un portiere che legge, di notte, che ci fermi per guardarci dritto negli occhi e ascoltarci. Finalmente.