Per arrivare al Borgo serviva soltanto una cosa: del tempo perso. Tanto tempo perso. Quel luogo rappresentava per me il teatro dell’assurdo… Kafkiano quanto basta dal rendere indistinguibile un uomo da uno scarafaggio, una donna da un uomo, un uomo da un animale, soprattutto: me dagli altri.Per accedervi dovevi superare una porta i cui angeli custodi, prontamente, inevitabilmente, ogni domenica sera fermavano all’ngresso la sottoscritta con un severo: “Fammi vedere cosa hai messo nella borsetta”.
Premessa. All’interno di quel circo potevi trovare qualsiasi essere umano mascherato. Cambiavano genere, colore di capelli, sesso. Là dentro era concesso tutto. Poi arrivava la sottoscritta. E con sé portava se stessa. Niente fronzoli, pennacchi, trucco eccessivo, parrucche, tette finte, tacco dodici. Niente di niente. E quel ‘me stessa’ a quelli lì andava troppo stretto. L’unica possibile rea, l’eventuale killer in quella messa in scena in bilico tra il ridicolo e il fantascientifico in 3D sembrava poter essere quella creatura uscita da un romanzo di Verga. Verissima nell’ipocrisia dell’assoggettamento all’ilarità, vacua e comune. E in questa mia borsetta, a parte il dentifricio e lo spazzolino, a parte tutto ciò che per me poteva rappresentare motivo di sopravvivenza in una situazione paradossale come quella o quell’altra, non trovavano altro.
Li guardavo schifata, e proseguivo, come sempre, dritto. Testa bassa e poi dentro. Giù per un corridoio che scorreva sotto ponti arcati, grandi sostenitori di volte mai comprese dai più. Sarebbero mancati solo i capitelli in quel tempio che di greco, emanava tutto e niente… L’amore libero, l’apertura (o chiusura?) mentale e fisica verso il nuovo. Ed io lì in mezzo, sola solissima.
Mi facevo avvicinare da questi esseri aggraziati, di finti complimenti ricoperta, mi lasciavo trasportare nei più disparati balli. E sempre, dico sempre, al termine della canzone chiedevo loro: “Perché? Perché a me si avvicinano solo i gay? Cosa ho io di strano?” E loro, sorridendo: “Ma bambina io non sono mica gayyyyyyyy!”.
E nello sculettio venesio mi lasciavano lì, sola, solissima, nel vuoto del mio pensiero rubato dalla condivisione incompresa, ancora una volta, senza una risposta.
Senza LA risposta.
E tutte le domeniche, giuro, tutte le domeniche di quell’anno, senza prospettive né passato, io tornavo lì, ad annullarmi nell’alcol, ad annichilire la mia sobrietà apparente nell’offuscamento dei sensi che poco senso avrebbero avuto in posti più sensati.
Sensati per chi poi?
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