Ieri, mentre il cielo di Milano preannunciava con dei lampi la pioggia che sarebbe stata, ho deciso di anticipare la lettura di critiche e commenti, partorendo autonomamente un pensiero sull’ultimo film di Sorrentino.
Dopo un prologo di oltre dieci minuti a base di trenini, sigari, trashiume e volgarità volutamente eccessive, dove alle immagini capovolte di una realtà che mal si reggeva sulla sensatezza, si contrapponeva l’immagine di una nana che camminava sulla terrazza Martini di Roma come a dire “Il più piccolo degli uomini si ergerà in cima al mondo e , circondato dal niente, vi rimarrà, quando tutto sarà finito”, tutto ha avuto inizio. O fine…
Svevo, Proust e tutto l’acume letterario dell’ultimo secolo, l’arte classica e tutto quanto nella profondità ha trovato i natali, viene cinicamente portato al ridicolo nel corso di un film, a mio parere strepitoso, dove Servillo spicca senza troppi sforzi, a confronto di attorini che mal si destreggiano nel confronto col sommo.
Tutto è superficie, mondanità, bugia: la emo-artistoide dalla lacrima facile, l’amica additante dal passato ridicolo, il cardinale dall’interesse culinario, il prete sull’altalena, la ricca che fa la ricca, la prostituta in limousine, la sceneggiatrice che sniffa, la sniffatrice che muore, l’illusionista senza credenze, l’attore senza copione, la spogliarellista senza futuro, il depresso senza speranze.
In una macedonia di inquadrature, dove al flusso delle immagini corrisponde una carrellata di piani-sequenza, frame capovolti e statue classiche gettate alla mercé del delirio, tutto nasce e finisce in ogni scena.
Nella magistrale e ricercata accuratezza estetica del dettaglio, raccontato in immagini dal grandissimo Sorrentino e scandito dalle parole di un Servillo da oscar, lo spettatore è portato al limite della frustrazione, nella ricerca del “Dove vuole andare a parare?” contrapposta all’amarezza del “Dove siamo finiti?”.
In una trama latente dove alla stabilità inesistente del prologo si contrappone l’instabilità del protagonista e del mondo che lo circonda, tutto appare appeso al filo di una speranza: quella che in tutto questo stare a galla, in tutto questo sopravvivere fatto di fumo e di niente, ci sia, nel libro che Gep scriverà a fine film o nel ricordo del suo passato, un momento alto, una profondità, una radice digerita a cui aggrapparsi per sopravvivere.
E così che, quando la spogliarellista, emblema (almeno quanto la città di Roma) di una grande bellezza alla quale è stata sottratta l’anima, chiede al protagonista quale sia stata la sua ‘prima volta’, questi ricorda un momento. Una donna. Una frase spezzata, preambolo di un momento alto che il regista censura. Momento gettato come uno schiaffo a fine film, quando la speranza dei più viene smontata dalla rivelazione del censurato… L’ennesima grande bellezza estetica. Nient’altro.