Archivi del mese: marzo 2014

Lei (Her) di Spike Jonze

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Cosa accadrebbe se domani, il nostro parlare con noi stessi, la nostra terapia psicoanalitica piuttosto che le invocazioni verso quel Motore Immobile che da Aristotele ad oggi ci supervisiona e corregge, avessero come unico destinatario un’intelligenza artificiale che nient’altro può essere se non una proiezione di quel che vorremmo sentirci dire?

Se in questo futuro ipotetico (tragicamente ‘attuale’ per alcuni) i nostri processi di socializzazione ci portassero a notare l’altro e tutti quanti gli altri semplicemente come ‘ennesimi ‘me’ persi a parlare con altrettanti ‘se stessi”?  E se tutta la comunicazione che un tempo legava le persone, divenisse, in un istante, un legame di pensieri senza confronto reale, atti ad un autismo malvestito di felicità?

La soluzione sembra volercela dare Her di Spike Jonze.

Osannato dalla critica per regia, sceneggiatura, scenografia, colonna sonora e per le interpretazioni di Joaquin Phoenix, AmyAdams e Scarlett Johansson, questo film, tra il fantascentifico e la forma più alta e sapientemente raccontata del banale, si è aggiudicato addirittura un Premio Oscar per la Migliore sceneggiatura originale.

Il soggetto: Theodore, l’uomo del futuro, vive ad alta voce. Pensa e lavora ad alta voce. Apre i cassetti della sua mente, le mail della sua posta elettronica, le chat di incontri occasionali ad alta voce. Scrive ad alta voce e legge ad alta voce. Ma nessuno lo sente. Nel suo autismo sociopatico derivante da una relazione conclusa, nessuno riesce a sentire la sua voce, la stessa che dà voce agli ‘stessi’ ridotti nel suo stato.

La ricerca collettiva di comprensione crea, sul mercato, la necessità di inventare un supporto, un’intelligenza artificiale che sia ‘presente’ in mezzo a tante menti alla deriva, che si muovono a rate, in un processo di evoluzione e perfezionamento troppo lento rispetto a un mondo che corre troppo velocemente.

Theodore affida, così, la sua mente e la sua vita a Samantha, l’intelligenza artificiale che compensa i suoi vuoti: al lavoro, nei giorni feriali, a letto. E tutto di quanto l’intelligenza altra riesca a capire e decifrare dei sospiri, delle parole, dei pensieri di Theodore, spingono il protagonista ad innamorarsi di lei.

Ma la lentezza di movimento, di evoluzione, insita nella specie umana fa sì che la vita di Theodore, la sua intelligenza, restino sempre troppo indietro rispetto a quella delle macchine. “Parlare con gli umani – rivelerà Samantha a fine film – è come leggere un libro che amo moltissimo, ma nel quale le parole ricoprono uno spazio sempre più distante l’una dall’altra”. Uno spazio nel quale lei vuole smettere di aspettare.

Se l’uomo, dunque, non riuscirà a salvarsi dall’autismo entrando in simbiosi con la sua intelligenza artificiale, quest’ultima riuscirà a farlo per percorrere le vie di un futuro troppo ricco, troppo pieno e veloce da poter condividere con la pochezza mentale degli umani. Compresa la mia che poco ci ha capito di tutto quanto abbia visto e scritto su questo film.


Morto a tre quarti

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La vita è fatta di cicli storici. Me lo ha insegnato Gianbattista Vico, anche se nel 5° libro della Scienza nuova, il padre dello storicismo moderno attribuiva a questa frase ben altri significati rispetto alla piccola me che la prende in prestito. Quello che penso è che ad ogni stagione, ad ogni nuovo lavoro o nuovo ostacolo che ci si trovi davanti, affrontiamo una parte di noi, un subconscio fatto di stanchezze represse, insoddisfazioni dimenticate, aspettative disilluse che ciclicamente riemergono e che, prima o poi, inevitabilmente, ci portano a cadere in un totale, gigantesco, inesorabile stato di apatia.

Questo è quanto accade al protagonista di ‘Morto a tre quarti’, l’ultimo (che poi sarebbe il primo) libro di Francesco Balletta…

Ci troviamo in un ‘oggi’ non troppo definito dove il maresciallo Domenico Campana, sulla soglia dei 57 anni, di fronte all’ennesima indagine da affrontare (un insegnante del liceo locale picchiato e trafitto da una pugnalata al cuore), con tanto di fascicoli da visionare, testimoni da sentire, magistrati da convincere, alibi da smascherare, colpevoli da scovare, decide bene, (inconsciamente?) di farsi andare un osso di pollo di traverso pur di farla finita.

Di fronte a lui, in un attimo, una vita che scorre davanti e un ultimo, liberatorio, addio agli acciacchi, ai maledetti chili di troppo, a una non-vita fatta di stanchezza e di desideri pensionistici che, finalmente, nel riposo eterno, sembrerebbero trovare la meritata pace.

Campana lascia la sua vita a metà per giungere ad uno stato di non-morte o meglio: #morteatrequarti, una condizione di non trapasso completo che lo vede, al 65% morto, e per il restante… in prova. Per salire, infatti, ai piani alti del paradiso o scendere, nel supplizio eterno, il maresciallo è costretto a cimentarsi nella sua ultima indagine, appena ‘assaporata’ in vita, tra una coscia di pollo andata di traverso e un tiramisù in attesa di essere divorato, che lo vedrà, nell’aldilà, appassionarsi nuovamente a tutto quanto c’era nel vivere di dinamico, imprevedibile, curioso, affascinante e che lo porterà al rimpianto del vivere stesso.

Una lettura che parte in diesel, e che all’inizio (o alla fine) può ricordare quel Coelho di “Veronika decide di morire”, ma che sorprende, tra una pagina e l’altra, per la capacità dell’autore di raccontare la trama con virtuosismi linguistici, citazioni, informazioni, suspense, e che mi ha fatto ‘spolpare’ questo libro nel giro di un solo weekend senza correre il rischio di leggere pagine e farle andare di traverso. Come a significare, ancora una volta, che il dinamismo, possa solo portare alla ‘vita’, o come direbbe Ernst Bloch “Ai piedi del faro non c’è luce”: chi non resta a guardarsi i piedi commiserandosi e agisce per il raggiungimento di un obiettivo o del finale di un libro, non ne rimarrà sicuramente insoddisfatto. La voglia di fare, di arrivare, diventa, quindi, metafora della voglia di vivere.

“Mai in un giallo, dalla morte si arrivò alla vita…”.