La vita è fatta di cicli storici. Me lo ha insegnato Gianbattista Vico, anche se nel 5° libro della Scienza nuova, il padre dello storicismo moderno attribuiva a questa frase ben altri significati rispetto alla piccola me che la prende in prestito. Quello che penso è che ad ogni stagione, ad ogni nuovo lavoro o nuovo ostacolo che ci si trovi davanti, affrontiamo una parte di noi, un subconscio fatto di stanchezze represse, insoddisfazioni dimenticate, aspettative disilluse che ciclicamente riemergono e che, prima o poi, inevitabilmente, ci portano a cadere in un totale, gigantesco, inesorabile stato di apatia.
Questo è quanto accade al protagonista di ‘Morto a tre quarti’, l’ultimo (che poi sarebbe il primo) libro di Francesco Balletta…
Ci troviamo in un ‘oggi’ non troppo definito dove il maresciallo Domenico Campana, sulla soglia dei 57 anni, di fronte all’ennesima indagine da affrontare (un insegnante del liceo locale picchiato e trafitto da una pugnalata al cuore), con tanto di fascicoli da visionare, testimoni da sentire, magistrati da convincere, alibi da smascherare, colpevoli da scovare, decide bene, (inconsciamente?) di farsi andare un osso di pollo di traverso pur di farla finita.
Di fronte a lui, in un attimo, una vita che scorre davanti e un ultimo, liberatorio, addio agli acciacchi, ai maledetti chili di troppo, a una non-vita fatta di stanchezza e di desideri pensionistici che, finalmente, nel riposo eterno, sembrerebbero trovare la meritata pace.
Campana lascia la sua vita a metà per giungere ad uno stato di non-morte o meglio: #morteatrequarti, una condizione di non trapasso completo che lo vede, al 65% morto, e per il restante… in prova. Per salire, infatti, ai piani alti del paradiso o scendere, nel supplizio eterno, il maresciallo è costretto a cimentarsi nella sua ultima indagine, appena ‘assaporata’ in vita, tra una coscia di pollo andata di traverso e un tiramisù in attesa di essere divorato, che lo vedrà, nell’aldilà, appassionarsi nuovamente a tutto quanto c’era nel vivere di dinamico, imprevedibile, curioso, affascinante e che lo porterà al rimpianto del vivere stesso.
Una lettura che parte in diesel, e che all’inizio (o alla fine) può ricordare quel Coelho di “Veronika decide di morire”, ma che sorprende, tra una pagina e l’altra, per la capacità dell’autore di raccontare la trama con virtuosismi linguistici, citazioni, informazioni, suspense, e che mi ha fatto ‘spolpare’ questo libro nel giro di un solo weekend senza correre il rischio di leggere pagine e farle andare di traverso. Come a significare, ancora una volta, che il dinamismo, possa solo portare alla ‘vita’, o come direbbe Ernst Bloch “Ai piedi del faro non c’è luce”: chi non resta a guardarsi i piedi commiserandosi e agisce per il raggiungimento di un obiettivo o del finale di un libro, non ne rimarrà sicuramente insoddisfatto. La voglia di fare, di arrivare, diventa, quindi, metafora della voglia di vivere.
“Mai in un giallo, dalla morte si arrivò alla vita…”.
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