Lei (Her) di Spike Jonze

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Cosa accadrebbe se domani, il nostro parlare con noi stessi, la nostra terapia psicoanalitica piuttosto che le invocazioni verso quel Motore Immobile che da Aristotele ad oggi ci supervisiona e corregge, avessero come unico destinatario un’intelligenza artificiale che nient’altro può essere se non una proiezione di quel che vorremmo sentirci dire?

Se in questo futuro ipotetico (tragicamente ‘attuale’ per alcuni) i nostri processi di socializzazione ci portassero a notare l’altro e tutti quanti gli altri semplicemente come ‘ennesimi ‘me’ persi a parlare con altrettanti ‘se stessi”?  E se tutta la comunicazione che un tempo legava le persone, divenisse, in un istante, un legame di pensieri senza confronto reale, atti ad un autismo malvestito di felicità?

La soluzione sembra volercela dare Her di Spike Jonze.

Osannato dalla critica per regia, sceneggiatura, scenografia, colonna sonora e per le interpretazioni di Joaquin Phoenix, AmyAdams e Scarlett Johansson, questo film, tra il fantascentifico e la forma più alta e sapientemente raccontata del banale, si è aggiudicato addirittura un Premio Oscar per la Migliore sceneggiatura originale.

Il soggetto: Theodore, l’uomo del futuro, vive ad alta voce. Pensa e lavora ad alta voce. Apre i cassetti della sua mente, le mail della sua posta elettronica, le chat di incontri occasionali ad alta voce. Scrive ad alta voce e legge ad alta voce. Ma nessuno lo sente. Nel suo autismo sociopatico derivante da una relazione conclusa, nessuno riesce a sentire la sua voce, la stessa che dà voce agli ‘stessi’ ridotti nel suo stato.

La ricerca collettiva di comprensione crea, sul mercato, la necessità di inventare un supporto, un’intelligenza artificiale che sia ‘presente’ in mezzo a tante menti alla deriva, che si muovono a rate, in un processo di evoluzione e perfezionamento troppo lento rispetto a un mondo che corre troppo velocemente.

Theodore affida, così, la sua mente e la sua vita a Samantha, l’intelligenza artificiale che compensa i suoi vuoti: al lavoro, nei giorni feriali, a letto. E tutto di quanto l’intelligenza altra riesca a capire e decifrare dei sospiri, delle parole, dei pensieri di Theodore, spingono il protagonista ad innamorarsi di lei.

Ma la lentezza di movimento, di evoluzione, insita nella specie umana fa sì che la vita di Theodore, la sua intelligenza, restino sempre troppo indietro rispetto a quella delle macchine. “Parlare con gli umani – rivelerà Samantha a fine film – è come leggere un libro che amo moltissimo, ma nel quale le parole ricoprono uno spazio sempre più distante l’una dall’altra”. Uno spazio nel quale lei vuole smettere di aspettare.

Se l’uomo, dunque, non riuscirà a salvarsi dall’autismo entrando in simbiosi con la sua intelligenza artificiale, quest’ultima riuscirà a farlo per percorrere le vie di un futuro troppo ricco, troppo pieno e veloce da poter condividere con la pochezza mentale degli umani. Compresa la mia che poco ci ha capito di tutto quanto abbia visto e scritto su questo film.


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