The imitation game

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Esiste un gioco: un uomo pone una domanda a un altro uomo. Dalla risposta di quest’ultimo, il mittente capirà se a rispondere sia un uomo o una macchina. Se una macchina possa avere l’intelligenza di un uomo, se essa possa, dunque, pensare o se, invece, un uomo possa avere la freddezza di una macchina. Se egli possa lasciar correre. Vivere nella solitudine di un universo altro. Se egli possa superare l’incomprensione di chi non è ancora pronto, di chi corazza la propria ignoranza con la fobia e la condanna. E se la risposta non fa dell’uomo una macchina, la condanna sarà comunque dettata dalla fobia. L’uomo nasce pecora, non c’è niente da fare. Lo spiegava già Omero quando, per salvare il suo Ulisse dalla caverna del ciclope lo fece ricoprire del suo manto. E lo sottolinea Morten Tyldum in “The imitation game“, la trasposizione cinematografica di una storia drammaticamente vera.

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Nel corso della seconda Guerra mondiale, gli inglesi cercano di decifrare il codice ‘Enigma’ con il quale le potenze dell’asse comunicavano i propri prossimi passi. Alan Turing, matematico, crittoanalista, genio incompreso, finisce a capo del team di ‘decriptatori’. Si oppone ai colleghi intenti a decifrare il codice di una macchina con una mente umana, realizzando una macchina capace di combattere ‘Enigma’ ad armi pari. La sua macchina, la prima forma dell’attuale computer, raggiunge l’obiettivo prefissato: decifrare le comunicazioni nemiche e anticipare la fine della Guerra, salvando circa 14 milioni di persone. Per Turing non ci furono medaglie, riconoscimenti, aumenti di stipendio. Turing non era una pecora. Non sapeva fingere di provare simpatia per chi riteneva inferiore. Non sapeva arrendersi di fronte ai no e, cosa ancora peggiore, riteneva che “la violenza esista perché provoca appagamento ma se le togliamo questo appagamento non ha più ragione d’essere”. Turing veniva picchiato sin da piccolo. Umiliato da grande. Ma la sua freddezza, quella corazza d’indifferenza con cui copriva ogni sua fragilità, lo rendeva destinatario perfetto del detto: “A volte sono persone che nessuno può immaginare a fare cose che nessuno immagina”. Lo rendeva, quindi, detestabile.

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Anni dopo l’impresa eroica compiuta da quest’uomo egli venne condannato per “perversioni sessuali”, oggi meglio conosciute col nome di “omosessualità”. Poteva scegliere se passare due anni in prigione o se sottoporsi alla castrazione chimica. Scelse la seconda opzione per poi suicidarsi nel 1954. Da allora ci siamo persi anni di invenzioni mai nate. Ci siamo persi un’evoluzione tecnologica che avrebbe potuto raggiungere decenni fa, traguardi ancora inimmaginabili. Ci siamo persi i nobel, le medaglie, gli onori che non gli furono dedicati. Ci siamo persi i corsi universitari che non ci ha potuto presentare. Ma abbiamo un mondo salvo. Un bellissimo mondo di pecore salve grazie a un ‘pervertito’ in meno.


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