Alla scoperta di Bruce Springsteen 

 
Di musica, io, ci capisco poco e niente. Ho amato i Queen, i Beatles, le stanze senza pareti di Mina, le canzoni di Natale di Morgan e gli attimi senza fine di Paoli. Col tempo mi sono appassionata a Benvegnù, Carnesi e Casablancas passando da un genere all’altro senza dare un senso ad ogni variazione, ascoltando in loop qualunque novitá mi piacesse o mi proponessero e rimanendo ancorata, sempre e comunque, ai mitici anni ’80 con un pressappochismo che fino a l’altro ieri non mi aveva recato alcun problema. Già, perché l’altro ieri mi hanno regalato un ingresso per il concerto di Bruce Springsteen…

Anni fa, Stefano, il mitico direttore della testata giornalistica per la quale lavoravo, mi lasciò in piena diretta, durante i Mondiali di nuoto, dicendomi che la priorità, per lui, in quel momento, tra fratelli Marconi che saltavano in sincro e sincronette che impostavano cigni acquatici, era quella di vedere il boss. Lo presi per pazzo e al suo “Dici così perché non hai mai visto un suo concerto dal vivo”, lo presi per pazzo due volte.

E con lui, presi per pazzi tutti quegli amici, conoscenti, colleghi che mi narravano storie inverosimili di loro che giravano il mondo per non perdersi neanche una data del concerto del boss. Che io a queste fedi adolescenziali non ci avevo mai creduto. Che già le fedi serie, quelle religiose, mi facevano spavento, figurarsi girovagare per il mondo seguendo il ‘verbo’ di uno che si fa chiamare boss. 
Poi, l’altro ieri, sono stata ad un concerto. Ho conosciuto Bruce e da agnostica convinta oggi mi dichiaro umilmente devota.

 
Il concerto iniziava alle 20:00 al Circo Massimo di Roma. Il boss si é presentato circa venti minuti dopo, quando il cielo da azzurro cominciava a diventare ambrato. Con lui, sul palco, una piccola orchestra di archi, quindi la moglie, il sassofonista, il batterista e pochi altri ai quali, nel corso di quattro ore di concerto, mi sarei pian piano appassionata. Non so dirvi se Bruce abbia cantato i suoi cavalli di battaglia, se i musicisti abbiano azzeccato tutte le note o se la sua voce fosse più o meno graffiante del solito. So solo che, a Roma, per la prima volta in vita mia, ho visto un vero artista cantare, emozionarsi, commuoversi e divertirsi con la sua band. Sul palco, Bruce ha mostrato l’anima della musica, quella che i virtuosismi vocali di certi cantanti o le performance danzerecce di altri continueranno, per sempre, a mettere in ombra. Lui aveva un microfono, i suoi strumenti, la sua famiglia attorno e il suo pubblico. Che a guardargli gli occhi negli schermi giganti, ti faceva sentire parte di quella famiglia. Ti pareva quasi che assieme a noi, nei nostri cori dall’inglese stentato, potesse commuoversi anche lui. Che se il regista si fosse soffermato ancora un attimo su quegli occhi, è chiaro che li avresti visti lacrimare.

Che poi dico: anche solo vederlo lì a ridere e sorridere, a correre tra la folla, a tirar su i suoi fan per farli cantare e suonare con lui, ti faceva venire voglia di averlo come papà uno così. O come Papa. Insomma, il boss aveva 60mila persone lì davanti e a tirare le fila, alla regia, c’erano le sue emozioni contagiose. C’era una bella famiglia che si divertiva sul palco di cui per quattro ore potevi sognare di far parte alzando semplicemente le mani al cielo. Altro che stragi, binari unici e colpi di stato fittizi. Altro che volti tristi e silenzi. A Roma, l’altra sera, ho visto un mondo di gente che ballava e rideva e cantava tra la polvere. Sotto lo stesso cielo, con la stessa lingua (un po’ improvvisata) senza gli stessi pensieri.


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