Archivi del mese: febbraio 2018

Anche libero va bene

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Non amo parlare dei film che non mi piacciono. Quindi, se ne parlo, vuol dire che mi sono piaciuti. Anche se dico che non mi hanno convinto, che non so ancora dare una valutazione oggettiva. Mi sono piaciuti. E ‘mi sono piaciuti’, in genere, significa che, una volta finito il film, io ci continui a lasciare i pensieri. Dentro. Nella trama, nella scena del bimbo che piange che mi ha fatto piangere. Nella scelta di presentare il protagonista in quel modo, piuttosto che in quell’altro. E poi, caratteristica comune dei film che mi piacciono, sta nel fatto che consiglio a destra e a manca di vederli. Anche se sono di dodici anni fa e io li ho scoperti solo ora. Consiglio di vederli, di non restare indietro, come me, ancora per chissà quanto tempo…

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Ho consigliato di vedere ‘Anche libero va bene’ alle mie amiche, a mia sorella e ora lo consiglio anche a voi. Si tratta del primo film da regista di Kim Rossi Stuart con Alessandro Morace e Barbora Bobulova. Parla di Tommaso, un bimbo maturo che deve vedersela con tantissimi piccoli adulti per cercare di salvarli. Il padre di Tommaso, Renato, da tempo, vive con i suoi due figli cercando di portare avanti una parvenza di normalità familiare fatta di lezioni a scuola e a nuoto e a danza, con tanto di morettiani canti in macchina e abbracci a colazione, di scelte ‘parlate’ e condivise con i propri cuccioli ormai e all’occorrenza ‘grandi’. Un giorno, questa finta normalità familiare viene interrotta dal ritorno a casa di Stefania, la mamma dei cuccioli. Una donna inaffidabile, pronta a separarsi dalla famiglia ancora, e ancora, perché inappagata dal proprio uomo, frustrata dalla sua fragile condizione, dall’instabilità del suo carattere, dalla precarietà del suo lavoro. E mentre Renato, dopo una scenata iniziale a suon di bestemmie e parolacce, l’accoglie nell’illusione che questo sia l’ultimo ritorno, che non ci saranno altri abbandoni, che a tenere la famiglia unita basteranno figli addomesticati a coccolarla, mentre la figlia si lascia abbindolare dai copioni del papà rispondendo alle battute di mamma, Tommaso resta lì, fermo. A guardare. Senza sbilanciarsi, senza recitare la sua parte di cucciolo contento. “Che tanto, mamma se ne andrà ancora”.

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In questo film vengono esposte, una per una, tutte le menzogne che si raccontano i grandi per non guardare in faccia la verità. Tutti i teatrini che mettiamo in scena per non vedere che la persona con cui stiamo è una bambina che non vuole crescere, che siamo dei falliti sul lavoro, che la nostra famiglia perfetta non esiste, che i nostri figli non amano lo sport che abbiamo scelto per loro e che non basteranno tutte le canzoncine del mondo cantate in macchina per far sì che esista davvero. Ma la cosa più bella e commovente e straziante e poetica, raccontata in questo film, è che solo un bimbo può vedere la realtà così com’è. Solo negli occhi di un bimbo silente si riesce a specchiare un mondo di bugie che fanno rumore da tutte le parti.

 

 


Chiamami col tuo nome

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Avevo letto Chiamami col tuo nome di André Aciman qualche anno fa. E lo avevo amato. Ieri sera ne ho visto la trasposizione cinematografica e ancora non so se mi sia piaciuto. L’altezza del libro, quella è irraggiungibile da tutti i punti di vista. Perché quando leggiamo i libri proiettiamo nei personaggi, nei vestiti, nei paesaggi, nelle emozioni un po’ di noi stessi e quel pezzo di noi che l’immaginazione ci consentiva di rivedere nelle parole delle pagine, sul grande schermo scompare sempre, fotogramma dopo fotogramma, battuta dopo battuta. Ma Chiamami col tuo nome con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel è un film che va visto, in ogni caso. Non so perché ma uscita dalla sala mi immaginavo Salvini, Berlusconi e tutti i benpensanti italici incatenati alle poltrone di un cinema, con un’infermiera lì accanto, pronta a lubrificargli gli occhi, costretti a rimanere aperti. Rivedevo il finale di Arancia Meccanica in versione moderna, con coloro che oggi vorrebbero abolire le unioni civili, costretti a questa educazione sentimentale. A un’educazione all’amore a cui, evidentemente e purtroppo, sono stati sottratti da piccoli…

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Siamo nel 1983. In una città del nord Italia, una splendida coppia di intellettuali con il figlio Elio accoglie per le vacanze estive Oliver, un giovane americano trasferitosi per qualche mese al fine di portare avanti la sua tesi di post-dottorato. In questo contesto, il regista Luca Guadagnino, ci immerge in una bellezza culturale fatta di statue, adoni, ville dove si parlano tutte le lingue del mondo con disinvoltura, dove si legge la musica classica, si discute di filosofia, ci si confronta sulla politica e si dibatte sull’etimologia dei termini, una bellezza culturale dove tutto è possibile: anche l’amore tra il diciassettenne Elio e l’ospite universitario. Un amore provato, soffocato, idealizzato e finalmente vissuto. Dove non si sa, tra i due giovani, chi ami più l’altro, chi sia più combattuto rispetto alla volontà di lasciarsi andare completamente. Perché questo film non racconta di paure rispetto a una società omofoba. Narra della paura di lasciarsi andare e basta.

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E così, infinite inquadrature di albicocche sui rami, tramonti riflessi sull’acqua dei laghi, distese d’erba, nuotate nei fiumi, passeggiate in bicicletta tra giorni di sole e acquazzoni estivi, infinite discussioni inutili su Craxi e il pentapartito, sulla morte di Buñuel e l’imbarbarimento della cultura,  si frappongo tra l’attesa che Elio scopra di essere pazzo di Oliver e che questi gli lanci un solo segnale che anche per lui sia lo stesso. Inquadratura dopo inquadratura, nella lentezza di un amore che non può avere fretta per maturare, i due giovani ‘sprecano’ tutto il tempo a disposizione per concedersi solo alla fine, quando Oliver dovrà partire e il film dovrà trovare una sua fine. Ma non è questo l’importante. L’importante è che qualcosa sia successo. Che i due protagonisti si siano concessi di farlo succedere perché,  così come a fine film dirà il padre illuminato al triste Elio, in un monologo che vale da solo tutto il film: Sforzarsi di non provare niente per non provare qualcosa… è uno spreco!”

L’ultimo fotogramma di questo film vede Elio, davanti al camino. Piangere (e non mi sembra il caso di spoilerarvi il perché). Arrivano i titoli di coda. E mentre stai lì ad apprezzare il regista che ha messo tutte le stagiste tra i titoli, torni sugli occhi di Elio che continuano a piangere. Ancora e ancora. Anche quando il film è finito. Anche quando la gente in sala è in piedi o sei lì che torni a casa in macchina. Li vedi ancora quegli occhi che piangono. Quel finale che continua e ti rimane dentro…