“Joker”, “Tutto il mio folle amore” e la poesia dei giorni nostri.

Ho assistito a un poetry slam. In quest’epoca sprofondata nella superficialità, nell’accumulo sfrenato fatto di cose da dire, di cose da fare, di amici da ascoltare, di notizie da scrollare, di voci alte, di rumori e disturbi, avevo solo voglia di un po’ di autenticità o, semplicemente, di trovare un po’ di sana sensibilità condivisa nella quale riuscire, finalmente, a riconoscermi.

Sono entrata, quindi, in un locale, sui Navigli e, in mezzo a voci, frastuoni, grida e chiacchiericci distratti, c’erano loro: i ‘poeti’ della serata.

Si esibivano uno ad uno in preparatissimi cabaret dove facevi fatica a capire quando fosse cominciata l’esposizione poetica e quando (finalmente) fosse finita. Sul palco, ho visto giullari , menestrelli, animatori turistici, attori comici, cabarettisti, Joker (anzi no, salviamo Joker da questo banalissimo show) ma soprattutto, esibizionisti egocentrici, leggere o recitare a memoria versi che sembravano estrapolati da conversazioni su whatsapp tra innamorati dodicenni. Altri davano l’idea di aver composto delle canzoni rap, in rima, che interpretavano incitando la folla a interagire ad ogni strofa. Poi c’erano i geni mascherati di tristezza che, narrando di profughi morti in mare tra brindisi col pubblico e finti pianti singhiozzati, riuscivano a prendere più applausi di tutti.

E poi c’ero io con il mio amaro in mano, in gola, in testa: giudicante, incompresa, silenziosa e affranta da tutto quel rumore che faceva clamore, che prendeva applausi e trovava consensi e sapeva di niente. O peggio: sapeva di film dell’orrore.

Ultimamente, al cinema, ho visto due film che mi hanno scosso e percosso: “Joker” di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances Conroy e Brett Cullen e “Tutto il mio folle amore” di Gabriele Salvatores con Giulio Pranno, Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono, Daniel Vivian.

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Definiscono il primo un horror. Solo perché, circondato da troppo niente, inascoltato, incompreso, deriso, umiliato, un povero cristo, a un certo punto della sua vita, dopo aver accumulato rabbia, disperazione, tristezza, decide di ribellarsi al sistema nella maniera peggiore (o forse nell’unica maniera possibile per uno abituato a ingoiare rospi).

Assolutamente contraria ai metodi di ribellione utilizzati dal protagonista, per carità, ma come non capirlo? In questo “Black mirror” incombente e sempre meno virtuale, io vedo una moltitudine di potenziali Joker là fuori. Che ridono e ridono e ridono alzando il volume in quella risata. Perchè piangere, quello, bisogna farlo in silenzio lì dove nessuno può sentirli. Che il rischio di rimanere esclusi sarebbe troppo alto, troppo alto, altrimenti.

Ho visto anche “Tutto il mio folle amore”. E pensate un po’, in quell’horror di un “Joker” così come in questo film drammatico, io vi ho trovato molti più versi poetici ed emozioni che nella serata sui Navigli.

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Salvatores racconta il dramma dell’autismo o, forse, l’incapacità da parte di una madre, di un padre, di un figlio, di farsi accettare o, semplicemente, di trovare un modo, un gioco, una tastiera, una lingua, uno sguardo, per riuscire a comunicare.

Sia nell’uno che nell’altro film a cui ancora, dopo settimane, penso, la grandezza di attori, registi e sceneggiatori sta nello strappare alle parole, ai gesti, alle battute, il dialogo e farlo arrivare dritto agli spettatori attraverso metodi inconsueti: la risata di Joker, il vento sui capelli di Vincent o la sua frase di saluto al padre, sul finale del film, fatta di parole che non vogliono dire niente e vogliono dire tutto.

Tutte le mie lacrime stanno ancora lì, in quello slam poetry chiamato cinema, ultima speranza di questi anni bui.


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