Archivi del mese: gennaio 2021

La novella degli scacchi

Dopo aver visto “La regina degli scacchi”, questo gioco è diventato la mia ossessione. Oltre al gioco in sé, quello che mi ha colpito, ciò per cui continuo ad allenarmi e a documentarmi, è l’abitudine alla pazienza qualcosa che, personalmente, non conoscevo e che, a livello terapeutico, si sta rivelando un toccasana per la sottoscritta. Ne parlavo l’altra sera con la mia amica Maria Elena: “Non si tratta semplicemente di un gioco”, le dicevo. “Ci sono dei pezzi e, ognuno di essi ha determinate regole o mosse da poter seguire. E lo scopo, sebbene sembri quello di uccidere il re (l’etimo del termine ‘scacco matto’, infatti, deriva dal persiano شاه مات‎, Shāh Māt che significa “il re è morto”) sta nell’attaccare continuando a difenderti. Che se ti difendi e basta perderai sicuramente. Ma se attacchi senza pensare alla difesa, il re è morto. È una sorta di triste metafora della vita in cui non andranno mai avanti quelli che giocano in difesa, ma quelli che attaccano continuamente senza fidarsi di chi hanno di fronte. E per riuscire a fare tutto ciò e a farlo bene, non si può certo azzardare, o prendere decisioni affrettate. Serve abituarsi alla pazienza“.

Dopo quella chiacchierata, Maria Elena mi ha regalato “La novella degli scacchi” di Stefan Zweig. Questo piccolo gioiellino narra la storia di Mirko Czentovič, campione di scacchi a livello mondiale con grandi problemi di acquisizione cognitiva che sfiorano l’analfabetismo rendendolo un misantropo grezzo, chiuso, altezzoso e avido che, su un piroscafo diretto da New York a Buenos Aires incrocerà il signor B, vero protagonista della vicenda. Nel corso del viaggio, i passeggeri, incuriositi dal carattere schivo e freddo di Czentovič, decidono di sfidarlo a scacchi per riuscire a carpirne i tratti di quella personalità tanto schiva. Il campione del mondo vince con facilità contro tutti, fino a quando, in una situazione di gioco disperata, non interviene il signor B, uomo intelligente e colto che, suggerendo alcune mosse ai giocatori, riesce ad impattare l’incontro

Una volta venuti a conoscenza di quell’uomo capace di anticipare le mosse del campione del mondo, gli ospiti del piroscafo cercano di convincerlo a partecipare a un incontro con Czentovič. E se dapprima la risposta è un rifiuto, dopo il signor B accetterà la sfida motivando la sua iniziale titubanza attraverso un racconto appassionato e angoscioso che va fatto risalire all’epoca nazista, a un periodo di detenzione in mano alla Gestapo in cui, attraverso il tentativo di una totale demolizione fisica e psicologica di B, costretto a vivere in una stanza vuota con “un tavolo e un letto e un catino e una tappezzeria” i nazisti cercavano di estorcergli informazioni sulle sue attività professionali. Una fase della sua vita durata troppi mesi in cui a salvarlo o a condannarlo per sempre, ci furono gli scacchi. Dopo aver rubato, infatti, dalla tasca dell’uniforme di un ufficiale tedesco un libro contenente 150 partite tra campioni, B imparerà tutte le strategie di questo gioco e come, da queste, riuscire a sfidare se stesso, a mente. Una sfida tra la propria parte bianca e quella nera che rasenta la follia, in attimi in cui alla pazienza di un sé, si contrappone l’impazienza dell’altro sé e dove l’intera realtà sembrerà essere rappresentata da una partita a scacchi da cui B riuscirà ad uscire ritrovandosi in una clinica dove, liberato dal nazismo con la promessa di emigrare entro due settimane, dovrà promettere al suo medico di non giocare più a scacchi. 

Dopo questo racconto, B accetterà di giocare contro Czentovič a patto che quella sia la sua prima e ultima partita. Ma a quell’incontro ne seguirà un altro e la frenesia patologica da cui era affetto B tornerà a ripresentarsi nella sua vita fino a quando questi non deciderà di arrendersi. Di lasciare la partita incompiuta, di rinunciare alla lotta contro l’avversario o, forse, contro se stesso. Dopo aver scritto questo romanzo Zweig si suicidò. Nel suo libro ritroviamo la prefigurazione di una sconfitta dell’intelligenza, della cultura e della sensibilità ad opera di un analfabeta ottuso. I richiami alla disfatta dell’Europa per mano di Hitler in questo parallelismo tra colti e rozzi, sembra evidente. Peccato che Zweig non ebbe la pazienza di restare in vita a vedere se Hitler l’abbia poi vinta davvero quella partita lì.

Voto: 3 su 5


Dolores Claiborne

Dolores Claiborne è un libro di Stephen King che racconta, a mo’ di monologo-confessione, la vita di Dolores, un’anziana donna del Maine che, sulla soglia dei 66 anni, si ritrova a fare i conti con la giustizia, accusata di aver ucciso Vera Donovan, la ricca invalida di cui era governante. In un susseguirsi di flashback, la protagonista ripercorrerà tutta la sua vita. Una vita segnata da violenze, umiliazioni e angherie inflittele dalla padrona a cui Dolores rimane fino alla fine e paradossalmente devota, e dal marito, un ubriacone, ignorante dalla fronte liscia e poco altro di buono da ricordare. Un uomo scomparso misteriosamente trent’anni prima e ritrovato cadavere con parecchi interrogativi ancora aperti.

Ho cominciato a leggere King due estati fa. Dopo Misery, lo scorso anno, mi sono avventurata nella lettura di IT, quello che considero un capolavoro di stesura e montaggio, un perfetto manuale per chi volesse imparare a scrivere un libro. Ho trovato Dolores, totalmente differente dai ’soliti’ libri attribuibili al Re. Nessun riferimento al paranormale, niente mostri o scene horror. Quella che ho divorato in poco più di due giorni, è un’ammissione di colpe lunga 267 pagine: la colpa di aver sposato l’uomo sbagliato, di averci fatto dei figli. Di non aver visto gli abusi nei confronti della figlia. Di averlo ucciso. Di non averlo detto. La colpa di aver deciso di accudire una ricca incarognita e di non averla ascoltata fino in fondo. O di averla ascoltata troppo bene, incarognendosi a sua volta. La colpa di aver trovato nel male, nella ribellione solitaria, l’unica forma di giustizia pensabile. 

A fine libro, credo che nessuno possa condannare Dolores. Non credo che lo si possa fare. In lei, nel suo amore divenuto violento, nella sua voglia di proteggere i figli, la padrona e tutto quanto le fosse caro, si rispecchia la voglia di proteggere se stessa dopo una vita straziata da ferite, da notti insonni e dalla solitudine, diretta conseguenza di tutto quanto è stato da lei, e da tutti, taciuto.

Voto: 3 su 5


La vasca del Führer

La vasca del Führer è il ritratto romanzato della vita di Elizabeth (Lee) Miller, scandito in 242 pagine di descrizioni fotografiche dalla penna di Serena Dandini. Un libro sull’emancipazione femminile che non segue mode o rivoluzioni femministe, che non sfida dogmi, patriarcati e misoginie ma che, esattamente come in un quadro realista, dipinge quello che Lee Miller è stata: una modella (prima per il padre, poi per i favori del pubblico grazie a un incontro fortuito con Condé Nast), una fotografa di moda e di guerra per Vogue ma, soprattutto, una donna completamente libera di percorrere la propria vita e poi di cambiarla e di stravolgerla a suo piacimento. 

Non avevo mai letto un libro della Dandini (che amo come conduttrice televisiva) né conoscevo la straordinaria storia della Miller ma, malgrado le premesse, ho fatto una fatica incredibile a portare a termine la lettura di questo libro (nonostante ne divori notte e giorno di più lunghi e ‘pesanti’). Partiamo dal titolo: credo che “La vasca dal Führer” sia lo specchietto per le allodole migliore che si potesse scegliere per attrarre, sia a livello visivo che immaginativo, l’attenzione dei lettori su quello che non è assolutamente, o non solo, un libro sulla seconda guerra mondiale e sulle atrocità dei lager da cui ripulirsi, provocatoriamente, in una vasca. Questa scena, quella della Miller nella vasca dell’appartamento nel quale Hitler incontrava Eva Brawn, rappresenta l’1% della storia. La storia di Lee, della sua vita mondana, dei suoi incontri con gli artisti, i fotografi, gli editori e i registi più famosi dell’epoca e delle sue passioni amorose e non, mai appaganti.

La vicenda viene raccontata come una biografia narrata in terza persona dove la terza persona, però, non sembra essere la Miller ma la Dandini. Dal ritrovamento delle foto della protagonista alla visione del suo unico cameo al cinema, i commenti dell’autrice del libro prendono il sopravvento sulla vicenda amorosa, professionale e artistica della Miller lasciando il lettore perplesso e, pressoché, infastidito da questi continui parallelismi tra la vita di Lee e quella di Serena. Al contempo, questo insinuarsi, da parte della Dandini, nei pensieri della Miller, questo suo raccontarne i dialoghi, le decisioni, le aspettative, le lettere mai scritte o le frasi non dette, falsa il genere rendendo il romanzo pura fantascienza. 

Tutto quello che rappresenta la Miller, dalle sue nudità immortalate da piccola dal padre alle sue pose per Vogue passando per i suoi scatti da fotografa, non hanno alcun tipo di immagine a supporto per cui, nel corso di tutto il libro, si è costretti ad accedere a Google sperando che il motore di ricerca rintracci, tra parole chiave improvvisate quando i titoli delle foto latitano, le immagini descritte.

Infine, la libertà sessuale della protagonista, sottolineata e rimarcata ad ogni capitolo, più che idealizzare la Miller a ruolo di antesignana di ciò che ogni essere umano debba essere e possa fare, sembra etichettarla come colei che, quando nessuno poteva, osava fare certe cose. Io credo che la vita di Lee Miller, dovrebbe essere studiata come esempio di caparbietà e determinazione. Come la rappresentazione reale di quel concetto filosofico per cui “Ai piedi del faro non c’è luce” e solo ponendosi sempre un obiettivo, davanti, si possa vedere la luce. Che in tutto questo cammino lungo la propria vita, si tradisca il marito, si faccia sesso ammanettati o si venga cornificati, non credo abbia troppa importanza. Né credo che queste curiosità intime arricchiscano il termine ‘libertà’ di chissà quali significati.

Voto: 2 su 5