Dopo aver visto “La regina degli scacchi”, questo gioco è diventato la mia ossessione. Oltre al gioco in sé, quello che mi ha colpito, ciò per cui continuo ad allenarmi e a documentarmi, è l’abitudine alla pazienza qualcosa che, personalmente, non conoscevo e che, a livello terapeutico, si sta rivelando un toccasana per la sottoscritta. Ne parlavo l’altra sera con la mia amica Maria Elena: “Non si tratta semplicemente di un gioco”, le dicevo. “Ci sono dei pezzi e, ognuno di essi ha determinate regole o mosse da poter seguire. E lo scopo, sebbene sembri quello di uccidere il re (l’etimo del termine ‘scacco matto’, infatti, deriva dal persiano شاه مات, Shāh Māt che significa “il re è morto”) sta nell’attaccare continuando a difenderti. Che se ti difendi e basta perderai sicuramente. Ma se attacchi senza pensare alla difesa, il re è morto. È una sorta di triste metafora della vita in cui non andranno mai avanti quelli che giocano in difesa, ma quelli che attaccano continuamente senza fidarsi di chi hanno di fronte. E per riuscire a fare tutto ciò e a farlo bene, non si può certo azzardare, o prendere decisioni affrettate. Serve abituarsi alla pazienza“.
Dopo quella chiacchierata, Maria Elena mi ha regalato “La novella degli scacchi” di Stefan Zweig. Questo piccolo gioiellino narra la storia di Mirko Czentovič, campione di scacchi a livello mondiale con grandi problemi di acquisizione cognitiva che sfiorano l’analfabetismo rendendolo un misantropo grezzo, chiuso, altezzoso e avido che, su un piroscafo diretto da New York a Buenos Aires incrocerà il signor B, vero protagonista della vicenda. Nel corso del viaggio, i passeggeri, incuriositi dal carattere schivo e freddo di Czentovič, decidono di sfidarlo a scacchi per riuscire a carpirne i tratti di quella personalità tanto schiva. Il campione del mondo vince con facilità contro tutti, fino a quando, in una situazione di gioco disperata, non interviene il signor B, uomo intelligente e colto che, suggerendo alcune mosse ai giocatori, riesce ad impattare l’incontro.
Una volta venuti a conoscenza di quell’uomo capace di anticipare le mosse del campione del mondo, gli ospiti del piroscafo cercano di convincerlo a partecipare a un incontro con Czentovič. E se dapprima la risposta è un rifiuto, dopo il signor B accetterà la sfida motivando la sua iniziale titubanza attraverso un racconto appassionato e angoscioso che va fatto risalire all’epoca nazista, a un periodo di detenzione in mano alla Gestapo in cui, attraverso il tentativo di una totale demolizione fisica e psicologica di B, costretto a vivere in una stanza vuota con “un tavolo e un letto e un catino e una tappezzeria” i nazisti cercavano di estorcergli informazioni sulle sue attività professionali. Una fase della sua vita durata troppi mesi in cui a salvarlo o a condannarlo per sempre, ci furono gli scacchi. Dopo aver rubato, infatti, dalla tasca dell’uniforme di un ufficiale tedesco un libro contenente 150 partite tra campioni, B imparerà tutte le strategie di questo gioco e come, da queste, riuscire a sfidare se stesso, a mente. Una sfida tra la propria parte bianca e quella nera che rasenta la follia, in attimi in cui alla pazienza di un sé, si contrappone l’impazienza dell’altro sé e dove l’intera realtà sembrerà essere rappresentata da una partita a scacchi da cui B riuscirà ad uscire ritrovandosi in una clinica dove, liberato dal nazismo con la promessa di emigrare entro due settimane, dovrà promettere al suo medico di non giocare più a scacchi.
Dopo questo racconto, B accetterà di giocare contro Czentovič a patto che quella sia la sua prima e ultima partita. Ma a quell’incontro ne seguirà un altro e la frenesia patologica da cui era affetto B tornerà a ripresentarsi nella sua vita fino a quando questi non deciderà di arrendersi. Di lasciare la partita incompiuta, di rinunciare alla lotta contro l’avversario o, forse, contro se stesso. Dopo aver scritto questo romanzo Zweig si suicidò. Nel suo libro ritroviamo la prefigurazione di una sconfitta dell’intelligenza, della cultura e della sensibilità ad opera di un analfabeta ottuso. I richiami alla disfatta dell’Europa per mano di Hitler in questo parallelismo tra colti e rozzi, sembra evidente. Peccato che Zweig non ebbe la pazienza di restare in vita a vedere se Hitler l’abbia poi vinta davvero quella partita lì.
Voto: 3 su 5