Immobilismo da Covid-19: quando la responsabilità di Jonas ebbe la meglio sulla speranza utopica di Ernst Bloch

Negli sguardi diffidenti della gente, nel suo andamento veloce, schivante e schifante, nel silenzio e nell’apparente quiete, nei tram, negli autobus e nelle poche presenze che continuano a girare col loro passo serrato si rispecchia un periodo, quello in corso, quello trascorso, quello a venire, che sembra rispecchiare appieno la concezione filosofica e, oggi, attualissima, di Hans Jonas. Con il suo “Principio responsabilità”, il filosofo tedesco di origine ebraica, nel 1979 demoliva l’audace e utopistico “Principio speranza” di Ernest Bloch, affermando che “la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici”.

Si sviluppava, così il principio filosofico cardine di un’etica razionalista applicata in particolare ai temi dell’ecologia e della bioetica, un’etica che premiava l’immobilismo responsabile e la cultura del pensiero attivo e della conseguenza premonita alla corsa utopistica Blochiana.

Ne Il principio speranza, Bloch aveva mostrato, infatti, come la coscienza anticipante dell’uomo si manifesti nei sogni, nelle aspirazioni che caratterizzano la vita quotidiana, nel mondo fantastico delle favole, dei film, dei racconti, degli spettacoli teatrali. Come se l’uomo non fosse definibile ontologicamente nella sua staticità presente ma come non-essere-ancora. Da qui il suo motto “Ai piedi del faro non c’è luce”, un monito a reagire all’immobilismo, guardando sempre avanti, proponendosi un obiettivo da raggiungere in quanto “intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c’è ancora, cercando e costruendo nell’azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare – incipit vita nova”.

E così, in questo eterno dibattito bioetico tra il presente immobile e responsabile e il futuro utopico da costruire a tutti i costi, siamo stati costretti a seguire la lezione di Jonas.

E dalle canzoni sui balconi, dalle partite a tennis giocate tra i terrazzi, dai compleanni festeggiati alle finestre e dalle lenzuola bianche tappezzate di “Andrà tutto bene”, principi speranza focalizzati sull’utopia di quella luce distante dal faro, ancora visibile e raggiungibile, siamo stati costretti a passare inesorabilmente al secondo lockdown quando il silenzio è caduto sull’Italia e sull’anima degli italiani. Lo sforzo è stato sostituito dalla resa. I programmi dai rimandi, gli indicativi dai condizionali. E tutti si sono fermati, là dove si trovavano. Che dove non c’era nulla, nulla è rimasto. E dove c’era qualcosa, i licenziamenti hanno creato il nulla. E tutti hanno ritrovato le loro case, le camere da letto, i libri non finiti, i letti da rassettare, i mobili da restaurare, i passatempi da giocare. Tutti si sono presi il tempo. Hanno cominciato a sentirlo, scandito dai rintocchi degli orologi, di campanili finalmente protagonisti di un ‘fuori’ silente. E in questa quiete tanto ambita nelle giornate frenetiche del passato, il principio di Jonas ha finalmente trovato il suo presente. Ora che le uscite improvvisate, gli assembramenti nascosti ci rendono empiricamente consapevoli delle conseguenze a cui ognuno di noi potrebbe andare incontro, siamo tutti colpevoli se ci muoviamo. E colpevoli se programmiamo. Perché niente è programmabile. Niente si può muovere finché tutto questo rimanere sospesi non sarà finito e questa proiezione al futuro si continuerà a chiamare ansia.

Ma non possiamo chiudere un articolo del genere in questo modo, non vi pare?

Bloch sosteneva che l’utopia e la speranza danno all’uomo la possibilità di anticipare quel futuro dove l’uomo stesso realizza la sua intima essenza, ma il vero futuro deve essere nuovo, non può essere qualcosa di predeterminato nel passato e nel presente così da essere prevedibile in modo del tutto certo. E allora rassettiamo i letti, finiamo di leggere i nostri libri, restauriamo i mobili e poi riprendiamo a sperare. Che se anche la speranza è continuamente sottoposta al rischio, all’incertezza, all’ennesima pandemia, alle regioni rosse, alle cadute di governo, ai licenziamenti, ai dispiaceri, alle perdite, essa deve continuamente lottare per il futuro-nuovo, quello post-covid. E stare sul fronte. Prima che presto sia troppo tardi per ricordare come si fa. A sperare. 


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