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Elvira, a teatro

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L’altra sera sono andata a vedere Elvira al Teatro Grassi di Milano. Si tratta dello spettacolo che Toni Servillo ha tratto dalle sette lezioni che Louis Jouvet diede all’allieva Claudia, al Conservatoire National d’Art dramatique di Parigi, nei mesi dell’occupazione nazista.

Siamo nel 1940.  Sul palco, il ‘maestro’, ‘regista’, ‘pedagogista’ Jouvet/Servillo è alle prese con il lavoro appassionato di Claudia, intorno alla seconda scena di Elvira quando, nel Don Giovanni di Molière, l’infelice innamorata arriva in scena e implora il suo seduttore di pentirsi, per salvarsi l’anima. Quello che viene raccontato è il difficilissimo atto di immergersi completamente nel ruolo di un personaggio. Tutto lo spettacolo è una grande, sublime, lezione di recitazione a suon di: “Elimina i filtri dell’orgoglio!”, “Fa’ che sia il tuo corpo a muoversi e a ‘parlare’, non il testo!”, “Evita le pause, fa’ che le parole fuoriescano dal tuo petto, dalla tua pancia”. E per due ore, che sia di spalle o frontale, che sia seduto o in piedi, al centro del teatro o nell’angolo meno illuminato della sala, Servillo riempie lo spazio. Le sue battute, scandite e intervallate da cambi di tono, la sua gestualità, il suo sguardo, attento e aperto alla sua discente come a tutto ciò che si ‘senta’ intorno, le verità da lui declamate, rendono ogni spettatore Claudia. Come se quel maestro lì, quegli insegnamenti, quell’attenzione, quello sguardo, oggi più che mai, in una società basata sulla superficialità di una comunicazione che resta sempre dietro a un display o, semplicemente, in superficie, fossero necessari. Come se quella richiesta di autenticità, di verità dell’interpretazione fossero l’unica cosa che ci sia rimasta. Perché, che si tratti del mondo della recitazione o delle prove, che si tratti di vita reale o di finzione, quello che ci racconta Elvira è che non bisogna solo e soltanto sottostare alle regole, interpretare alla lettera quanto ci si aspetti da noi. Quello che più di tutto colpisce, in questo spettacolo, quello che commuove, è la supplica del maestro alla discente di “metterci se stessa”, di entrare dentro a quanto stia facendo e “recitare la bellezza”, nonostante il nazismo che attanagliava le pause di Elvira, o i momenti abbandonati al caos che scandiscono questo presente.

E di fronte a tutto questo c’è Claudia (Petra Valentini). Claudia che prova, Claudia che sbaglia, Claudia che ascolta il maestro e che resta lì, a dare un senso a quell’ascolto, al suo silenzio. E i silenzi di Claudia sono tantissimi. Il suo personaggio difficilissimo. Perché siamo tutti Claudia. Sbagliamo tutti, continuamente. Perché la vita là fuori invade le nostre teste e trovare la concentrazione per rimanere autentici risulta impossibile. Farlo in pochissimo tempo, assurdo. Perché se anche sei l’attrice più promettente del corso,  il talento da solo non basta, va disciplinato da un continuo esercizio, dalla continua necessità di guardarsi dentro, togliersi le maschere, togliere addirittura il sé per poi ritrovarlo.

A fine spettacolo sono corsa a salutare Servillo, incredula, nel sapere che avrebbe accettato di incontrare il suo pubblico. Mi aspettavo una marea di gente, lì con me. Eravamo in quattro. Ho commentato il suo spettacolo rivelandogli che sarebbe stato meraviglioso, per me, averlo come insegnante di recitazione. Mi ha risposto che non lo farebbe mai, che non si sente “portato”. Poi, rifacendomi a quanto avevo visto, gli ho chiesto se, nei panni dell’attore, dell’uomo che rispetta le regole, che trova il consenso dell’insegnante quando finalmente va in scena, si diventi immuni da critiche di ogni sorta. E lì, l’immenso Servillo, mi ha stupito rivelandomi che le critiche fanno male. Che le senti, a prescindere.

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Io ci ripenso da giorni a quanto mi ha detto. Penso che avrei voluto invitare lui e Petra a cena per sommergerli di domande. E ripenso alla scena finale, quando, nonostante tutti gli applausi fossero per Servillo, questi mandasse avanti la sua giovane allieva, ritagliando per se stesso solo le uscite di gruppo. Un gesto di GRANDE BELLEZZA di un uomo immenso che resta ancora un passo indietro.

Quindi, se come me amate la recitazione, la psicanalisi o, semplicemente, se amate qualcuno, portatelo a vedere Elvira: vi vedrete una dichiarazione d’amore divorante, appassionata e autentica per il teatro ma anche una “lectio vitae”, la cera che vuole essere plasmata dal regista, la potenza che si deve fare atto, un esercizio che, dimentico della tecnica va in fondo al punto: mettersi faccia a faccia con se stessi a prescindere dal contesto.

Se poi vi verrà voglia, iscrivetevi a un corso di teatro ma ricordate: non ci saranno specchi attorno a voi. Lì non vi potrete guardare… che da dentro.

 


Anche libero va bene

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Non amo parlare dei film che non mi piacciono. Quindi, se ne parlo, vuol dire che mi sono piaciuti. Anche se dico che non mi hanno convinto, che non so ancora dare una valutazione oggettiva. Mi sono piaciuti. E ‘mi sono piaciuti’, in genere, significa che, una volta finito il film, io ci continui a lasciare i pensieri. Dentro. Nella trama, nella scena del bimbo che piange che mi ha fatto piangere. Nella scelta di presentare il protagonista in quel modo, piuttosto che in quell’altro. E poi, caratteristica comune dei film che mi piacciono, sta nel fatto che consiglio a destra e a manca di vederli. Anche se sono di dodici anni fa e io li ho scoperti solo ora. Consiglio di vederli, di non restare indietro, come me, ancora per chissà quanto tempo…

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Ho consigliato di vedere ‘Anche libero va bene’ alle mie amiche, a mia sorella e ora lo consiglio anche a voi. Si tratta del primo film da regista di Kim Rossi Stuart con Alessandro Morace e Barbora Bobulova. Parla di Tommaso, un bimbo maturo che deve vedersela con tantissimi piccoli adulti per cercare di salvarli. Il padre di Tommaso, Renato, da tempo, vive con i suoi due figli cercando di portare avanti una parvenza di normalità familiare fatta di lezioni a scuola e a nuoto e a danza, con tanto di morettiani canti in macchina e abbracci a colazione, di scelte ‘parlate’ e condivise con i propri cuccioli ormai e all’occorrenza ‘grandi’. Un giorno, questa finta normalità familiare viene interrotta dal ritorno a casa di Stefania, la mamma dei cuccioli. Una donna inaffidabile, pronta a separarsi dalla famiglia ancora, e ancora, perché inappagata dal proprio uomo, frustrata dalla sua fragile condizione, dall’instabilità del suo carattere, dalla precarietà del suo lavoro. E mentre Renato, dopo una scenata iniziale a suon di bestemmie e parolacce, l’accoglie nell’illusione che questo sia l’ultimo ritorno, che non ci saranno altri abbandoni, che a tenere la famiglia unita basteranno figli addomesticati a coccolarla, mentre la figlia si lascia abbindolare dai copioni del papà rispondendo alle battute di mamma, Tommaso resta lì, fermo. A guardare. Senza sbilanciarsi, senza recitare la sua parte di cucciolo contento. “Che tanto, mamma se ne andrà ancora”.

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In questo film vengono esposte, una per una, tutte le menzogne che si raccontano i grandi per non guardare in faccia la verità. Tutti i teatrini che mettiamo in scena per non vedere che la persona con cui stiamo è una bambina che non vuole crescere, che siamo dei falliti sul lavoro, che la nostra famiglia perfetta non esiste, che i nostri figli non amano lo sport che abbiamo scelto per loro e che non basteranno tutte le canzoncine del mondo cantate in macchina per far sì che esista davvero. Ma la cosa più bella e commovente e straziante e poetica, raccontata in questo film, è che solo un bimbo può vedere la realtà così com’è. Solo negli occhi di un bimbo silente si riesce a specchiare un mondo di bugie che fanno rumore da tutte le parti.

 

 


Chiamami col tuo nome

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Avevo letto Chiamami col tuo nome di André Aciman qualche anno fa. E lo avevo amato. Ieri sera ne ho visto la trasposizione cinematografica e ancora non so se mi sia piaciuto. L’altezza del libro, quella è irraggiungibile da tutti i punti di vista. Perché quando leggiamo i libri proiettiamo nei personaggi, nei vestiti, nei paesaggi, nelle emozioni un po’ di noi stessi e quel pezzo di noi che l’immaginazione ci consentiva di rivedere nelle parole delle pagine, sul grande schermo scompare sempre, fotogramma dopo fotogramma, battuta dopo battuta. Ma Chiamami col tuo nome con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel è un film che va visto, in ogni caso. Non so perché ma uscita dalla sala mi immaginavo Salvini, Berlusconi e tutti i benpensanti italici incatenati alle poltrone di un cinema, con un’infermiera lì accanto, pronta a lubrificargli gli occhi, costretti a rimanere aperti. Rivedevo il finale di Arancia Meccanica in versione moderna, con coloro che oggi vorrebbero abolire le unioni civili, costretti a questa educazione sentimentale. A un’educazione all’amore a cui, evidentemente e purtroppo, sono stati sottratti da piccoli…

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Siamo nel 1983. In una città del nord Italia, una splendida coppia di intellettuali con il figlio Elio accoglie per le vacanze estive Oliver, un giovane americano trasferitosi per qualche mese al fine di portare avanti la sua tesi di post-dottorato. In questo contesto, il regista Luca Guadagnino, ci immerge in una bellezza culturale fatta di statue, adoni, ville dove si parlano tutte le lingue del mondo con disinvoltura, dove si legge la musica classica, si discute di filosofia, ci si confronta sulla politica e si dibatte sull’etimologia dei termini, una bellezza culturale dove tutto è possibile: anche l’amore tra il diciassettenne Elio e l’ospite universitario. Un amore provato, soffocato, idealizzato e finalmente vissuto. Dove non si sa, tra i due giovani, chi ami più l’altro, chi sia più combattuto rispetto alla volontà di lasciarsi andare completamente. Perché questo film non racconta di paure rispetto a una società omofoba. Narra della paura di lasciarsi andare e basta.

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E così, infinite inquadrature di albicocche sui rami, tramonti riflessi sull’acqua dei laghi, distese d’erba, nuotate nei fiumi, passeggiate in bicicletta tra giorni di sole e acquazzoni estivi, infinite discussioni inutili su Craxi e il pentapartito, sulla morte di Buñuel e l’imbarbarimento della cultura,  si frappongo tra l’attesa che Elio scopra di essere pazzo di Oliver e che questi gli lanci un solo segnale che anche per lui sia lo stesso. Inquadratura dopo inquadratura, nella lentezza di un amore che non può avere fretta per maturare, i due giovani ‘sprecano’ tutto il tempo a disposizione per concedersi solo alla fine, quando Oliver dovrà partire e il film dovrà trovare una sua fine. Ma non è questo l’importante. L’importante è che qualcosa sia successo. Che i due protagonisti si siano concessi di farlo succedere perché,  così come a fine film dirà il padre illuminato al triste Elio, in un monologo che vale da solo tutto il film: Sforzarsi di non provare niente per non provare qualcosa… è uno spreco!”

L’ultimo fotogramma di questo film vede Elio, davanti al camino. Piangere (e non mi sembra il caso di spoilerarvi il perché). Arrivano i titoli di coda. E mentre stai lì ad apprezzare il regista che ha messo tutte le stagiste tra i titoli, torni sugli occhi di Elio che continuano a piangere. Ancora e ancora. Anche quando il film è finito. Anche quando la gente in sala è in piedi o sei lì che torni a casa in macchina. Li vedi ancora quegli occhi che piangono. Quel finale che continua e ti rimane dentro…


The Handmaid’s Tale

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Sono una neofita, lo ammetto. Di serie ne ho viste poche. I film, quelli sì, mi appassionano senza invadere troppo la mia vita, le mie notti, il mio tempo libero. Hanno un inizio e una fine. Non recano troppe fatiche alla mia concentrazione a tempo. Che se la spreco tutta davanti a uno schermo – mi sono sempre detta – per le cose serie dove la trovo? La concentrazione, dico.

Qualche giorno fa ho finito di vedere su TIMVISION The Handmaid’s Tale, trasposizione televisiva del libro ‘Il racconto dell’ancella’ di Margaret Atwood.

Vi si racconta di un mondo governato dagli uomini. Secondo leggi scritte da uomini. Dove le donne sono destinate a non fare carriera, a non avere ruoli importanti nella società, a non potersi opporre alle regole decise dagli uomini, a non poter scappare in altri mondi. Le donne sono ridotte a una condizione di schiavitù e, per questo, denominate ‘ancelle’. Sono animali da riproduzione. Sono vagine. Sono uteri.

Tutte le critiche lette in rete descrivono l’ambientazione di questa serie come collocata in un ‘futuro distopico’. Perché in The Handmaid’s Tale, le donne-vagine, vittime di stupri, di derisione, di violenza fisica e psicologica, sembrano non empatizzare con le altre donne. Perché nel regime misogino ed estremista di questa serie dove la donna nasce, cresce e resta un essere inferiore, nessuna donna osa opporsi a un sistema che le è stato imposto da sempre come ‘giusto’.

Fortuna che tutto questo è una serie tv. Che nella realtà, di fronte a uno stupro, le donne solidarizzino con le altre donne. E che le donne abbiano ruoli diversi da semplici vagine (o fiche, perché no?), e che possano addirittura aspirare al potere, al pari degli uomini.

Finita questa serie ho deciso di vederne un’altra. Che se affatico tutta la concentrazione davanti a uno schermo, alla realtà, quella vera, magari non ci penso più…


Occhi per ridere, occhi per piangere

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L’altra sera, in metro, assorta tra pensieri inutili e timeline di social dai facili scorrimenti, quasi non mi accorgevo dell’ingresso di due non vedenti. Lui, bastone in mano, capelli corti e sguardo assente. Lei, al suo fianco, piccola, minuta, mora e totalmente assorta: da lui.  

Non si parlavano. Non si guardavano. Si sentivano e basta. Lui voltava testa e corpo in cerca di presenze. Accanto, dietro, dinanzi. I suoi impercettibili movimenti corporei, la sua testa roteante mi raccontavano il disagio di un nero che lo circondava senza farsi vedere. Di un vuoto in cui cadere, di una presenza in cui sbattere che lui sentiva e affrontava con il sorriso sulle labbra e io guardavo impietrita.  

Lei lo avvinghiava in un abbraccio. Non si fidava di un bastone. Lei si muoveva con il braccio del suo compagno non vedente tra le mani. Mani che, di lì a poco, vedevo salire sulle sue spalle, sulla sua testa, per prenderla, misurare le distanze e baciarla.

Ecco. Ho visto una donna non vedente baciare la sua vista in una metro. 

E ho pianto.


Il mio teatro

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Avete mai visto i bimbi sulle giostre? Si divertono come matti su cavallucci di legno che girano. Immobili. Che se li osservate bene, capirete che la loro felicità è legata a quel momento fugace in cui mamma e papà gli fanno ‘ciao’ con la mano… e a nient’altro.

Ho ricominciato teatro. Quando arrivi in una nuova città e devi rifarti una vita con tanto di amici, conoscenti ed esperienze al seguito, nulla è meglio del teatro. Quel mondo dove troverai sempre delle persone che stanno cercando più o meno quello che cerchi tu. Una via di fuga. Una fonte di ossigeno. Quel posto dove liberare la mente e il corpo che nessuna terapia, palestra o hobbies può eguagliare.

Il mio teatro è sempre stato così. Mi ha sempre salvato.

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Quello che ho intravisto è l’aspetto comico dell’arte teatrale nella sua massima rappresentazione: il clown Augusto. Ho scoperto che, per poterlo mettere in scena, bisogna tornare bambini. Bisogna diventare protagonisti, accentratori, vanitosi. Perché se l’altro fa qualcosa, il clown lo saprà fare meglio. Se un uomo piange, ad esempio, il clown piangerà di più affinché tutti vedano il suo pianto. E se qualcuno ride, farà lo stesso. Ma di più. Perché tutti possano guardarlo e riderne, ancora e ancora, sempre di più. Di quelle risate di pancia che ti fanno piegare in due dal pianto. Di quelle che, una volta finite, ti fanno piangere immergendoti nei pensieri più torbidi fino a farti ridere di nuovo. In un gioco di emozioni da tirare fuori che non possono mai essere contenute, ma che vanno esasperate, accelerate, amplificate al massimo fino a toccare il climax, fino ad annullare qualsiasi pensiero.

Il mio teatro è sempre stato così. Mi ha sempre salvato.


Alla ricerca di Dory

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Continuo a pensare che i cartoni moderni siano prodotti per un target adulto. O che le generazioni adulte del momento abbiamo un assoluto bisogno di tornare bambine. Sempre che siano mai cresciute davvero…

Ieri ho visto “Alla ricerca di Dory” l’ultimo film della Pixar con la regia di Andrew Stanton, con Nemo, Marlin e il polpo Hank splendidi protagonisti a cornice di un’interprete perfetta: Dory. Nel sequel di Nemo, la pesciolina smemorata vive felicemente con i pesci pagliaccio conosciuti un anno prima quando, in uno dei suoi momenti di logorrea incontrollata, riaffiorano nella sua mente, alcuni, primordiali ricordi. Dory scopre di avere una famiglia e la trama del film si snoda attorno al ricongiungimento della pesciolina blu con i suoi cari. Un viaggio che sembra replicare le avventure di Marlin nella precedente storia, in cui occorrerà attraversare l’oceano, essere catturati dagli umani e ritornare al campo base, l’oceano, per ritrovare se stessi.

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Al di là delle repliche, i temi già visti, il ritmo del film (spesso lento e privo di colpi di scena), ho trovato questa versione dei ‘fatti’, discreta a livello registico, molto costruttiva a livello morale. Dory rappresenta, infatti, l’handicap. Marlin il pregiudizio. Nemo, semplicemente, il bambino, l’unico capace di vedere le cose così come sono, di trovare la genialità nella persona più che la critica nell’handicap. Come tutti i bambini del mondo (parlo dei bambini nella loro forma più pura e autentica) Nemo trova l’handicap della sua amica come qualcosa di assolutamente normale, addirittura geniale: perché Dory non ha tempo di organizzare, pensare, valutare. Dory perde la memoria e, per questo, è abituata ad agire in fretta, d’istinto, prima di perdere di vista quale fosse il suo obiettivo. Dory insegna ad agire d’istinto. A fidarsi dell’altro, che sia un pesce pagliaccio, un fantastico polpo con cui mimetizzarsi, un beluga o uno squalo balena. E si salva. E il suo metodo, applicato a fine film da Marlin, salva anche lui.

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Eppure viviamo in un modo terreno fatto di umani ben più crudeli di quelli incontrati nel film. Gli handicap reali vengono disprezzati, discriminati, derisi. Dory ha la fortuna di dimenticare e in fretta anche. Nella nostra società nulla si dimentica. Si deride l’handicappato così come l’insicuro, la fidanzata filmata al cellulare come il compagno di scuola dai vestiti sgualciti. Non ci sono polpi Hank capaci di prenderci, mimetizzarci e renderci invisibili agli occhi degli altri. Non ci sono memorie a breve termine che ci aiutino a cancellare le offese. Non c’è un oceano, un campo base che ci permetta di salvarci. Il dramma è che siamo e continueremo sempre più ad essere alla ricerca di una generazione che sembra destinata a perdersi per sempre.


Alla scoperta di Bruce Springsteen 

 
Di musica, io, ci capisco poco e niente. Ho amato i Queen, i Beatles, le stanze senza pareti di Mina, le canzoni di Natale di Morgan e gli attimi senza fine di Paoli. Col tempo mi sono appassionata a Benvegnù, Carnesi e Casablancas passando da un genere all’altro senza dare un senso ad ogni variazione, ascoltando in loop qualunque novitá mi piacesse o mi proponessero e rimanendo ancorata, sempre e comunque, ai mitici anni ’80 con un pressappochismo che fino a l’altro ieri non mi aveva recato alcun problema. Già, perché l’altro ieri mi hanno regalato un ingresso per il concerto di Bruce Springsteen…

Anni fa, Stefano, il mitico direttore della testata giornalistica per la quale lavoravo, mi lasciò in piena diretta, durante i Mondiali di nuoto, dicendomi che la priorità, per lui, in quel momento, tra fratelli Marconi che saltavano in sincro e sincronette che impostavano cigni acquatici, era quella di vedere il boss. Lo presi per pazzo e al suo “Dici così perché non hai mai visto un suo concerto dal vivo”, lo presi per pazzo due volte.

E con lui, presi per pazzi tutti quegli amici, conoscenti, colleghi che mi narravano storie inverosimili di loro che giravano il mondo per non perdersi neanche una data del concerto del boss. Che io a queste fedi adolescenziali non ci avevo mai creduto. Che già le fedi serie, quelle religiose, mi facevano spavento, figurarsi girovagare per il mondo seguendo il ‘verbo’ di uno che si fa chiamare boss. 
Poi, l’altro ieri, sono stata ad un concerto. Ho conosciuto Bruce e da agnostica convinta oggi mi dichiaro umilmente devota.

 
Il concerto iniziava alle 20:00 al Circo Massimo di Roma. Il boss si é presentato circa venti minuti dopo, quando il cielo da azzurro cominciava a diventare ambrato. Con lui, sul palco, una piccola orchestra di archi, quindi la moglie, il sassofonista, il batterista e pochi altri ai quali, nel corso di quattro ore di concerto, mi sarei pian piano appassionata. Non so dirvi se Bruce abbia cantato i suoi cavalli di battaglia, se i musicisti abbiano azzeccato tutte le note o se la sua voce fosse più o meno graffiante del solito. So solo che, a Roma, per la prima volta in vita mia, ho visto un vero artista cantare, emozionarsi, commuoversi e divertirsi con la sua band. Sul palco, Bruce ha mostrato l’anima della musica, quella che i virtuosismi vocali di certi cantanti o le performance danzerecce di altri continueranno, per sempre, a mettere in ombra. Lui aveva un microfono, i suoi strumenti, la sua famiglia attorno e il suo pubblico. Che a guardargli gli occhi negli schermi giganti, ti faceva sentire parte di quella famiglia. Ti pareva quasi che assieme a noi, nei nostri cori dall’inglese stentato, potesse commuoversi anche lui. Che se il regista si fosse soffermato ancora un attimo su quegli occhi, è chiaro che li avresti visti lacrimare.

Che poi dico: anche solo vederlo lì a ridere e sorridere, a correre tra la folla, a tirar su i suoi fan per farli cantare e suonare con lui, ti faceva venire voglia di averlo come papà uno così. O come Papa. Insomma, il boss aveva 60mila persone lì davanti e a tirare le fila, alla regia, c’erano le sue emozioni contagiose. C’era una bella famiglia che si divertiva sul palco di cui per quattro ore potevi sognare di far parte alzando semplicemente le mani al cielo. Altro che stragi, binari unici e colpi di stato fittizi. Altro che volti tristi e silenzi. A Roma, l’altra sera, ho visto un mondo di gente che ballava e rideva e cantava tra la polvere. Sotto lo stesso cielo, con la stessa lingua (un po’ improvvisata) senza gli stessi pensieri.


La pazza gioia

lapazzagioiaDove sta la felicità? In quale parte del mondo? In che tipo di atteggiamento? In quali riconoscimenti di normalità si può trovare? Sembra essere questo il fulcro attorno a cui ruota “La Pazza Gioia”, l’ultimo film di Paolo Virzì con Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti.

Il film, tra i più belli mai visti dalla sottoscritta, si snoda attorno alla vita di due donne: Beatrice e Donatella.
Beatrice parla. Di getto, a sproposito, senza filtri. Parla quando dovrebbe dormire, quando dovrebbe ascoltare, quando dovrebbe semplicemente stare zitta e rimanere lì dove le cose accadono. Parla da un piedistallo sul quale si è posta da sola e addita tutti come cafoni, inferiori, pazzi. Le sue parole vestono la sua vita distrutta, come i suoi abiti ricercati, i profumi costosi, i gioielli, i calici di vino che non sappiano di tappo ai quali, da sempre, è stata abituata. Le sue frasi calpestano l’umiltà dei suoi spettatori, la mediocrità che la circonda, l’essenza altra che lei non è disposta ad accettare attaccandosi a una superficie che la fa restare, comodamente, a galla.
Donatella piange. Piange da piccola, quando va a scuola. Piange perché di fronte al suo pianto arrivano rimproveri che la fanno piangere. Piange da grande. Piange perché il suo uomo la seduce e abbandona. Piange perché il suo pianto fa sì che le tolgano il suo bimbo. Piange perché il suo bimbo piange. Le sue lacrime vestono il suo corpo fragile, fatto di ossa e pelle, pelle e tatuaggi. Che in una vita dove ti tolgono tutto, la pelle la usi come un quaderno dove le parole possano restare per sempre. Almeno quelle.
Beatrice e Donatella si incontrano in una clinica di recupero mentale dalla quale riescono a evadere per darsi alla ‘pazza gioia’. Le due donne si scontrano con i rispettivi passati, svelando quanta normalità si possa riuscire ad affrontare per precipitare in uno stato di pazzia del genere.

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Beatrice era una ricca possidente trascinata alla povertà da un delinquente capace di sperperarle tutto il patrimonio. Donatella, una figlia abbandonata a se stessa, fragile e insicura, umile e modesta, capace di generare un’unica ricchezza: suo figlio. Ma per una abituata a piangere, è chiaro che anche questo bene non possa durare a lungo. La mamma perfetta deve sorridere sempre. Perché se la mamma piange il suo bimbo morirà di tristezza. E allora è meglio togliere il bimbo alla sua mamma triste piuttosto che insegnare alla sua mamma triste che si può anche sorridere…
Il punto è che alla fine di questo  film assieme a Donatella, piangeremo tutti. Perché quello che voleva dire Virzì,forse, è che la felicità proprio non esiste. E allora è meglio vestire di pazzia ogni forma di finta allegria come ogni forma di vera tristezza. Che se sei pazzo, pazzo vero, ti salva l’etichetta. Ti chiudono in un limbo con altri pazzi che quasi quasi ti fanno pure sentire normale. Se invece ti ostini ad essere normale, a rispettare i ‘normali’ costantemente incrociati sul tuo cammino, finisce che pazzo ti ci fanno diventare. E corri a farti curare o a studiare la pazzia altrui per adeguartici. In un mondo dove non sei che un pezzo di cristallo, dove “non hai ieri, non hai domani e trascini la vita senza fine, senza un attimo di respiro per sognare…”.


The Danish Girl

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La cosa che più amo nelle mostre non sono tanto i quadri ma la scoperta che posso fare, in minima parte, della personalità dei loro autori. Ricordo che da adolescente vidi la mostra di un vicino di casa. Lo conoscevo da anni e non sapevo assolutamente nulla di lui benché ci salutassimo tutti i giorni. Nei suoi quadri lo vidi per la prima volta. E da allora lo amai perdutamente…

Se volete vedere un bel film e liberarvi da un po’ di magoni accumulali dal disfacimento di ogni utopistica speranza riposta nello Stato Italiano, dopo la questione sulle Unioni Civili, se avete a cuore la vostra parte più triste e se volete darle voce, spazio, sfogo, correte a vedere The Danish Girl di Tom Hooper con il premio Oscar (non vinto ma assolutamente meritato) Eddie Redmayne e Alicia Vikander (oscar come migliore attrice non protagonista).

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La trama si snoda nella Danimarca di fine ‘800 dove l’apprezzatissimo paesaggista Einar Wegener vive serenamente con la moglie bramando di finire un quadro perfetto, la rappresentazione di una visione d’infanzia: quattro alberi si specchiano su un lago, dietro di loro una distesa d’erba. Tutto intorno luci e ombre e colori che variano di stagione in stagione, dal giorno alla notte. E mentre la moglie illustratrice comincia e finisce innumerevoli ritratti, Einar cambia continuamente tela per riproporre sempre e comunque lo stesso paesaggio che non riesce a trovare forma, senso, compiutezza. Un quadro come proiezione del sé, di una identità femminile imprigionata nel corpo di un uomo. Succede, infatti, che, per consentire alla consorte di finire un ritratto iniziato con una modella ballerina, Einar ne indossi i collant, le scarpe, ne assuma le pose e si scopra assolutamente a proprio agio in quegli abiti. Di lì a poco il protagonista (che odia indossare le maschere per presentarsi agli eventi mondani) decide, appoggiato dalla moglie, di accompagnarla ad una festa travestito da donna, spacciandosi per Lili Elbe.

Da questo momento Einar entra in un loop delirante in cui il proprio io fa i conti con un principio di realtà, con delle regole di accettazione e di omologazione che, difficilmente, riescono a tenerlo in vita, in carne. Viene, infatti, sottoposto a diverse visite mediche. C’è chi lo trova gravemente malato in quanto omosessuale, chi schizofrenico. C’è chi vieta a sua moglie di assecondare la sua voglia perversa di vestirsi da donna, c’è chi tenta di internarlo. Nel mondo attorno, solo sguardi di disgusto e disapprovazione. Finalmente un luminare trova nella sua storia elementi di normalità: Einar è semplicemente e tragicamente Lili, una donna malcapitata nel corpo di un uomo. Il medico lo sottopone a diversi interventi di chirurgia sperimentale per cambiargli il sesso. Nella Danimarca dei primi del ‘900 Einar diventa il primo transessuale della storia (riuscendo a ottenere il riconoscimento legale del suo nuovo sesso e il cambio di nome).

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Questo film è stato vietato ai minori di 14 anni. Io lo inserirei tra le materie obbligatorie nelle scuole elementari. Lo strepitoso Eddie Redmayne è elegante, raffinato, tenero e fragile. È una donna nel corpo di un uomo, è un quadro che non trova forma: nei sorrisi, nei pianti, nell’attitude con cui posa le mani sulle ginocchia o mette a posto i capelli, nella disperazione post-operazione. Non si può uscire dal cinema che con l’istinto di proteggerlo. Dalle brutture di chi definisce la sua condizione una malattia, da chi vieta questo film dove di fisico, morboso, pornografico c’è solo il pregiudizio di chi lo guarda.

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A fine film il quadro incompleto trova, finalmente, una sua forma. Einar diventato Lili sogna di stare tra le braccia della sua mamma come una bimba. Nell’accettazione silente della sua compagna di sempre, di colei che muove e scuote e permuta ciò che da solo non riesce a cambiare, c’è l’ascolto illuminato di un’intera società che finalmente comprende. E che chiaramente non può essere rappresentata dall’Italia del 2016.

Vietate questo film quindi. Evitate di vederlo e restate al sicuro, nelle vostre case prive di quadri, fatte di visioni incomplete e pregiudizi certi.